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Vittorio Feltri su Luca Palamara radiato: "Il caso dell'ex pm insegna, se dici la verità in Italia finisci male"

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 Vittorio Feltri

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Ormai Luca Palamara è più famoso di Lukaku, ogni dì i giornali e le televisioni si occupano di lui senza spiegare correttamente i motivi che lo hanno portato ai disonori della cronaca. Personalmente l'ho incontrato una sola volta, ci siamo stretti la mano e nulla più. Quindi se parlo di lui nessuno può dire che mi faccia velo l'amicizia. La sua vicenda, in base alla quale è stato radiato dall'Ordine giudiziario, mi ha sempre incuriosito per un semplice motivo: leggendo le sue requisitorie contro la categoria dei magistrati, ho capito che la ragione sta dalla sua parte. Egli non ha raccontato una fiaba bensì si è limitato a citare dei fatti verosimili alla luce di quello che è accaduto nella casta togata, il cui comportamento in linea di massima è valutabile da chiunque abbia gli occhi almeno semiaperti. Naturalmente evito con cura di entrare nei dettagli del polpettone di notizie riguardanti le prodezze, si fa per dire, degli amministratori della giustizia e specialmente dell'ingiustizia. In qualità di cronista mi occupai spesso di inchieste e processi. Ne ricordo uno emblematico, quello relativo al povero Enzo Tortora. Fui incaricato dal direttore del Corriere di allora, Piero Ostellino, di seguire le varie udienze a Napoli. Non capivo un accidente di quanto succedesse in aula, un groviglio di pentiti si affannava a lanciare accuse verso il famoso presentatore televisivo. Si discuteva soprattutto di droga. Sennonché la sera, a lavori ultimati, noi giornalisti in gruppo andavamo in trattoria. Poi i colleghi si radunavano in un locale per il poker fino a notte inoltrata.

 

 

 

A me il gioco delle carte non piaceva e non piace, per cui me ne tornavo in albergo, sul comò della stanza era accatastato un plico contenente atti processuali. A cui per rompere la noia detti una occhiata veloce. Evi trovai delle contraddizioni sesquipedali. Per esempio era scritto che Melluso il 5 maggio, non rammento di quale anno, avrebbe consegnato a Tortora, in piazzale Loreto, una scatola zeppa di cocaina. Telefonai al nostro archivio e chiesi all'addetto di controllare i fascicoli per verificare dove si trovasse il pentito quel giorno. La risposta dopo un paio d'ore fu: era detenuto nel carcere di massima sicurezza di Campobasso. Mi si aprì il cervello e da quel momento  andai a caccia di stupidaggini e ne scovai parecchie, pertanto mi convinsi che Enzo fosse innocente, travolto da bugie enormi. La sentenza a suo carico fu comunque di colpevolezza, in primo grado: dieci anni di galera. Una follia che in secondo grado fu annullata con una piena assoluzione. Intanto però l'imputato era stato distrutto nell'animo e nel fisico e di lì a poco morì. Mi resi conto che i magistrati sono come i cronisti e i geometri: alcuni sono bravi, altri mica tanto. In seguito prestai attenzione a quanto accade nei tribunali e ho scoperto varie schifezze. Condanne insensate, assoluzioni tardive, pasticci giudiziari macroscopici. Tutti coloro i quali compiono un errore sul lavoro, tranvieri inclusi, pagano di tasca propria. Per i magistrati paga lo Stato, ovvio che essi se ne freghino di commettere sgarri. E qui torniamo a Palamara, che non sarà simpatico come Totò, ma suppongo che dica la verità nel descrivere i meccanismi che regolano le carriere nel baraccone giudiziario. Un intrigo di amicizie e complicità sta alla base delle carriere, anche nei livelli più alti. Risultato: invece di radiare i furbetti della toga, hanno radiato chi li ha denunciati, cioè Palamara. È un caso tipicamente italiano. Se uno afferma la verità lo mandano a casa come un reietto. Dovrebbero premiarlo, ma siccome sono giudici a decidere lo castigano. Un bel referendum non fu mai approvato. Peccato.

 

 

 

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