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Giustizia, "Anche un semplice like può diventare un reato". Ecco cosa si rischia penalmente

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Miriam Romano
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«Sono passibile di favoreggiamento della prostituzione, se collaboro in qualche modo alla redazione di un annuncio online di prestazioni sessuali, magari per rendere più appetibile il prodotto. La semplice inserzione di un annuncio su un sito web, invece, non è più reato». Paolo Galdieri, avvocato del fo rodi Roma e docente di diritto penale dell'informatica, parla delle nuove frontiere dei reati informatici nel suo nuovo libro, "Il Diritto penale dell'informatica: legge, giudice e società", uscito a luglio.

Nel suo libro menziona il caso del rinvio a giudizio per diffamazione, presso il Tribunale di Brindisi, in seguito all'apposizione di un like a un post denigratorio di un sindaco e di alcuni dipendenti comunali. Ma è vero? Potremmo essere puniti per un semplice like?

«Il like può essere interpretato come una condivisione, un'adesione a quanto scritto da un terzo soggetto. Quindi se il contenuto di un messaggio pubblicato sui social è diffamatorio, c'è chi rileva la possibilità di sostenere che attraverso il like si manifesti un'adesione al contenuto. Per fortuna, però, la maggioranza della giurisprudenza e della dottrina abbracciano un'altra tesi. Quella per cui si interpreta il like come un gesto automatico, fatto con leggerezza, senza pensarci. Il problema è che usiamo la rete con molta leggerezza, internet porta ad avere meno freni inibitori».

 

 

 

Ci si lascia un po' andare, insomma.

«Sì. Ad esempio, nel mio mondo professionale, quello degli avvocati, siamo pieni di procedimenti disciplinari a causa di offese e commenti scritti sui social, con i nomi e cognomi de gli autori. Ancora più grave è il problema dei messaggi di odio diffusi attraverso la rete: l'effetto domino dei like può rendere massima la lesività del contenuto veicolato. Inoltre, non sono pochi i casi di campagne d'odio più consistenti e create tramite profili falsi, per cui risalire all'autore diventa impossibile».

C'è chi può finire nei guai per una leggerezza, ma c'è anche chi commette un reato in rete per non essere smascherato.

«Il tema dell'impunità in rete è un grosso problema. Finché i reati sono telefonici il riconoscimento avviene attraverso la voce, nei reati tradizionali c'è l'aspetto "fisico" che permette di riconoscere l'autore. Per i reati informatici si parla di "uomini senza ombra", che agiscono a distanza. Bisogna dimostrare che dietro quel determinato computer ci sia quella determinata persona. Si ricorre all'IP, ma non è sempre una garanzia, viene considerata la prima traccia per identificare un computer ma non è sicuro che dietro quel pc ci sia quella determinata persona. Se la rete è wireless, per esempio, allo stesso IP possono essere collegate più persone».

Vuol dire che qualcuno può essere anche giudicato colpevole per qualcosa che non ha commesso?

«Questo è un rischio che si corre anche per i reati tradizionali. Però in rete gli elementi probatori sono più difficili da verificare. A un mio cliente, ad esempio, era stato contestato di essersi procurato del materiale pedopornografico, ma lui non poteva essere connesso a internet in quel momento perché era stato testimone a un matrimonio a Venezia, quel giorno, alla stessa ora. Portammo quindi delle foto digitali a supporto della nostra linea difensiva. Il mio cliente è stato assolto perché era innocente. Ma può capitare che qualcuno che invece ha effettivamente commesso un reato, possa essere assolto. Basta infatti che l'avvocato insinui il dubbio sulla validità della tecnica di identificazione: In dubio pro reo. A questo va aggiunta tutta la questione degli effetti della tecnologia sulla mente umana, che potrebbero mettere in discussione la capacità di intendere e di volere».

 

 

 

Mi faccia un esempio.

«Esistono soprattutto negli Stati Uniti dei programmi di "teledidonica", ovvero di realtà sessuale virtuale. Per fare un esempio, attraverso questi programmi un uomo potrebbe trascorrere delle notti virtuali con una famosa modella. L'uomo incontra nella realtà la vera modella e si sente in confidenza per averla vista e frequentata attraverso questo programma con il quale ha avuto dei rapporti con lei, simulati anche attraverso dei sensori. Quanto questa percezione sbagliata è addebitabile all'uomo e quanto alla tecnologia? Si fanno quindi dei confronti tra l'uso della tecnologia e quello di alcol e droga, da cui dipende l'imputabilità del soggetto e quindi la riduzione della pena».

Un'altra frontiera di cui parla nel libro è la responsabilità penale dei robot.

«Ci troviamo di fronte al caso degli umanoidi in grado di acquisire esperienze diverse e più avanzate rispetto a quelle studiate da chi li ha progettati. A furia di accumulare esperienza, possono fare di testa loro. Nel caso in cui commetta un reato, ci si dovrà chiedere se colui che l'ha progettato poteva prevedere questo tipo di conseguenza, ose è tutta colpa del robot». 

 

 

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