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Francesco Di Donato: "Perché i giudici sono peggio dei dittatori". L'esperto di storia svela l'anomalia italiana: cosa succede nell'ombra nei Tribunali

 Francesco Di Donato

Pietro Senaldi
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«Il partito dei giudici governa senza la responsabilità che è tipica invece del governo politico. Governa in modo occulto, per sentenze interpretative, additive, manipolative e ora perfino intermittenti, da quando un verdetto della Corte Costituzionale ha sancito l'innovativo principio "per questa volta vi perdoniamo ma la prossima vi stronchiamo". La creatività artistica c'era arrivata già da tempo: recitava uno splendido verso di Giorgio Gaber che "la legge c'è, la legge non c'è", a seconda delle convenienze politiche momentanee dei giudici che la interpretano e, interpretandola, di fatto la creano ola fanno tacere». La pronuncia della Consulta è quella che nel 2019, presidente l'attuale Guardasigilli, Marta Cartabia, stabilì che non è giusto che il governo conceda al Parlamento solo tre ore per esaminare tutta la legge Finanziaria, ma che per l'esecutivo giallorosso di Conte, si poteva fare un'eccezione. Il virgolettato invece è uno stralcio di drammatico realismo di 9871. Statualità Civiltà Libertà. Scritti di storia costituzionale (Napoli, Editoriale Scientifica), poderoso e ponderato lavoro di Francesco Di Donato, 57 anni, professore ordinario di Storia delle Istituzioni al Dipartimento di Scienze Politiche dell'Università Federico II di Napoli.

 

 

Ordinario dal 2005, ha ottenuto la cattedra nel celebre ateneo napoletano in modo piuttosto atipico nell'università attuale: ha vinto un concorso vero, dinanzi a una commissione internazionale presieduta da Jacques Krynen, professore a Tolosa, considerato tra i più illustri storici viventi del diritto e delle istituzioni al mondo. «È da 35 anni che studio il tema dei rapporti tra magistratura e potere politico nella storia europea e sono giunto alla conclusione che in Italia, il problema fondamentale è lo strapotere dei giudici». Non c'entrano niente Tangentopoli, Berlusconi, Palamara e il processo a Salvini perché è innocente ma è un nemico, come spiegato dall'allora capo delle toghe. «Parte tutto da più di mille anni fa, è scritto nel dna dell'Italia, perché la debolezza del potere politico ha portato a un naturale sconfinamento di potere della magistratura».

Il lungo viaggio di Di Donato nella storia svela la perversione del meccanismo: «Se lo Stato, inteso non come istituzione formale, ma come civiltà pubblica, è forte, il ricorso alla magistratura è debole e la categoria influisce meno nella vita di un Paese; se, invece, lo Stato è debole, si ha un diritto senza legge, perché i giudici comandano su tutto, arrivando a fare perfino "ingegneria sociale", decidendo l'assetto delle banche, delle imprese, finanche gli usi e costumi delle persone, cosa si può dire e cosa no».

Qual è il danno maggiore determinato da questa situazione, professore?
«L'assenza di giustizia. Più potere hanno i giudici, meno giustizia resta per i cittadini».

Sembra un paradosso...
«Lo è. Ed è questo un punto cruciale nella società della comunicazione. Le persone tendono intuitivamente a pensare che i diritti siano tutelati dal potere dei magistrati. Non è affatto così. L'osservazione storica ci mostra l'esatto contrario».

Ma se in Italia non c'è giustizia, perché tutti intentano cause?
«Proprio per questo motivo. Si cade come in una distorsione "ottica". Si è introiettata l'idea che la legge abbia una sorta di forza di applicazione propria e che i giudici siano il tramite per applicarla. Così la mente opera un clamoroso autoinganno, rimuovendo lo spettro dell'arbitrio. E così si fanno cause su cause fingendo di non sapere che esse saranno infinite e che perciò non dispenseranno mai giustizia (una giustizia, qualora arrivi tardivamente, non lo è più). Ma le cose non stanno come la distorsione generalizzata fa credere. Nei tribunali non c'è un solo avvocato che pensi che il diritto giudiziario sia l'applicazione della legge. C'è ormai una specie di scoraggiata rassegnazione divenuta cronica. E su questo la magistratura autocelebra i suoi trionfi e accumula sempre più potere. Ma il fenomeno non è recente».

 

 

Si è però aggravato ultimamente?
«Oggi siamo in una situazione peggiore a quella che precedette la Rivoluzione Francese, perché allora, nel cosiddetto Antico Regime, c'era in Francia una dialettica molto intensa tra potere politico e magistratura. In Italia non c'è mai stata per assenza di una delle due parti, la parte politica. Questa situazione facilita oggi l'annullamento del potere sovrano e sposta la sovranità effettiva nella funzione giurisdizionale, determinandone una mutazione genetica. Cosa c'entra la rivoluzione francese? «È da lì che è nata l'età dei diritti, per riprendere la formula fortunata di Norberto Bobbio».
 

Libertà, fraternità, uguaglianza...
«Sì ma questi sono principi che subentrarono in corso d'opera. Nell'Ancien Régime i magistrati francesi avevano raggiunto un potere smisurato, malgrado la dottrina politica continuasse a propagandare la favola del potere assoluto. Un segno che mostra bene a qual punto fosse pervenuto il potere dei giudici è nelle statue autocelebrative che venivano erette nelle piazze delle città dove avevano sede le più importanti corti di giustizia (chiamate 'Parlamenti')».

Ma non c'era un re? E l'"Etat c'est moi"?
«Luigi XIV non pronunciò mai quella frase. Non vi è alcuna prova testuale. Il potere giudiziario arrivò a ostacolare tutte le riforme del governo e costruì step by step un potere pervasivo su ogni aspetto della società, arrivando perfino a regolamentare aspetti privatissimi come l'abbigliamento delle donne. Un po' come i talebani di oggi! A un certo punto il potere monarchico non ne poté più e cercò di reagire».

Fu quindi una rivoluzione contro i giudici?
«Esattamente. Il popolo era più stufo dei magi«Nei tribunali non c'è un solo avvocato che pensi che il diritto giudiziario sia l'applicazione della legge» strati che di Maria Antonietta. Non a caso dopo averli osannati per più di tre secoli, improvvisamente le folle abbatterono le statue dei giudici».

A distanza di 232 anni, si può dire allora che abbiamo perso lo spirito della rivoluzione francese...
«Già nel 1837 la Cassazione, un organo creato per arginare il potere creativo della magistratura e per rimediare ai suoi errori divenne un organo legislativo legittimato a creare il diritto attraverso le sentenze; un regresso barbarico che interruppe il processo di lotta per il diritto e di civilizzazione statuale. Infine la dottrina giuridica stabilì il principio assoluto che la legge non può essere mai solo e semplicemente applicata ma deve essere interpretata. Si è introdotta così la divaricazione tra norma e diritto, una formula che svuota il potere legislativo e che sancisce l'egemonia (politica) della tecnica giuridica. Oggi non si parte neanche più dalla legge per porsi il problema di applicarla, ma dal significato sotteso alla norma, in modo da interpretarla, reinterpretarla e così riscriverla, modificandola ad libitum secondo le opportunità del momento".

È l'eredità di Tangentopoli?
«Non direi perché il problema è molto più antico. Ma quella stagione ha segnato una svolta perché ha potenziato l'impatto mediatico e quindi ha diffuso l'idea che i magistrati salvino la società dalla corruzione. In un sistema sano la magistratura non deve salvare da niente. Non è, come dicevano i suoi protagonisti nell'Antico Regime, "una milizia". Nello Stato di diritto il giudice è sempre terzo senza eccezioni né stati di eccezione. Ad esempio come cittadino trovo gravissimo che tutti i protagonisti in toga di quella stagione abbiano poi ricoperto incarichi politici. E senza che questo abbia comportato una indignazione pubblica».

Quando parla di milizia in riferimento ai giudici allude al famoso slogan "Resistere, resistere, resistere", coniato dalla Procura di Milano?
«No non pensavo a quello, ma uso la sua domanda per affermare che i magistrati non si dovrebbero comportare come sacerdoti, lanciando crociate contro la corruzione o combattendo un fenomeno sociale o una persona. Il giudice deve limitarsi ad applicare la legge e a rispondere alla domanda di giustizia. Sic et simpliciter».

Risultato, in sintesi?
«In Italia non esiste un potere sovrano con princìpi-cardine ma una continua ricerca di accordi complessivi, di regola occulti, che alla fine impediscono il formarsi di un senso dell'interesse generale. Così il Paese non si muove di un millimetro dai tempi di Dante. Lo tocchiamo con mano in ogni circostanza, da ultimo con il Covid. In quale altro Paese si vedono ministri che vanno in tv a proporre provvedimenti? In un paese normale un ministro non propone, dispone. E si assume la responsabilità politica delle sue scelte, uscendo di scena quando esse portano a risultati negativi».

 

 

Va bene professore, ma cosa c'entrano i giudici?
«Riflettiamo insieme: negli altri Paesi del mondo avanzato le facoltà universitarie dove si studia la legge si chiamano "facoltà di diritto" (e spesso di "diritto e scienze politiche"); qui da noi dire "sono iscritto a legge" è sminuente; si studia giurisprudenza, cioè l'interpretazione che i magistrati fanno degli enunciati legislativi, che non sono nemmeno considerati norme. Il che significa che all'università si inculca nelle teste dei futuri operatori del diritto che i giudici sono di gran lunga più importanti delle norme. Sono loro le norme».

Le leggi però le fa il Parlamento...
«Così si crede comunemente in base all'autoinganno di cui le dicevo prima: in realtà il 98% delle leggi le fa il governo e i testi sono scritti dagli uffici legislativi ministeriali, per lo più diretti da magistrati e consiglieri di Stato distaccati, che scrivono appositamente le norme in modo nebuloso. Lo fanno apposta con una tecnica precisa. Così, quando arriva il momento di applicarle, i giudici-interpreti hanno facilità a riscriverle di volta in volta, a danno dell'uniformità e della certezza del diritto. Nessuno oggi può dire, con ragionevole previsione, come finirà una causa. L'eccesso di burocrazia e di formalismo è una tecnica ben nota allo storico del diritto per accrescere a dismisura il potere dei giudici e indebolire il diritto».

Descrive i giudici come una sorta di dittatori-tiranni...
«In realtà sono anche peggio, perché i dittatori si assumono palesemente la responsabilità del potere che esercitano e si espongono al rischio di essere destituiti. I giudici sono invece irresponsabili, agiscono nell'ombra. Il giudice Gherardo Colombo dichiarò palesemente che "il giudice migliore è quello invisibile". Così riescono a far credere ai cittadini che lavorano per difendere i diritti delle persone e la pubblica opinione, già narcotizzata da secoli di inedia, cade nella trappola. Ma quali diritti difendi, con itempi di questa giustizia che tiene in ostaggio chi vi ricorre? Mi creda: se guardiamo agli esempi storici, l'affermazione del diritto e della giustizia è sempre passata attraverso la riduzione del potere dei giuristi».

Finirà come la Rivoluzione Francese?
«Nessuno può dirlo. All'inizio neppure la Rivoluzione Francese si pensava sarebbe finita così. Posso però dire che la Rivoluzione si compì per abbattere il potere politico occulto dei magistrati e impedire l'uso politico della giustizia. Occorse affermare il principio che la giustizia è uguale per tutti. E questa non è la situazione attuale in Italia».

Gli italiani però sono esasperati dalla giustizia...
«È quello che mi auguro, ma sono uno storico e lo storico si occupa con serietà del passato non del futuro. Certo, come cittadino sono esasperato e mi auguro che arriverà il momento in cui ci si renderà conto che non si può vivere in una Repubblica libera se i magistrati comandano in maniera assoluta e senza né divisione né bilanciamento dei poteri. Quando il Paese ne prenderà coscienza, si realizzerà l'auspicio di Massimo D'Azeglio: fatta l'Italia, avremo fatto gli italiani».

Se potesse fare lei una riforma?
«Guardi il potere giudiziario di per sé ha un volto demoniaco. È una potestas terribilis. Credo che i giudici debbano essere terzi anche rispetto al proprio potere. La giurisdizione ha già in sé una potenza smisurata, se la si aumenta oltre i limiti fissati dalla legge si realizza una situazione ben poco compatibile con la democrazia. Ma purtroppo si studia tanto il diritto giurisprudenziale e poco la logica e l'antropologia e la sociologia giuridica. Materie invece fondamentali nella formazione di un giurista non formalista e burocrate. E la stessa storia del diritto è fatta in Italia per lo più per rafforzare l'autocelebrazione dei giuristi. Mentre, come ben diceva Giovanni Sartori, la storia costituzionale (che non a caso è bandita dai corsi di giurisprudenza, insegna una visione critica, funzionale alla società non alla consorteria giuridica». 

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