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Vittorio Feltri e "la patata bollente". I pm lo vogliono in carcere per 3 anni per il titolo di Libero sulla Raggi

 Vittorio Feltri

Tommaso Montesano
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Tre anni e quattro mesi di reclusione, più 5mila euro di multa, per Vittorio Feltri; otto mesi di carcere per Pietro Senaldi. Sono queste le pene chieste dalla procura nel processo per diffamazione che il prossimo 5 ottobre a Catania vedrà svolgersi l'ultima udienza, con successiva camera di consiglio per la sentenza - a carico del direttore editoriale e dell'attuale condirettore di Libero per il titolo - e l'articolo - «Patata bollente», pubblicato il 10 febbraio 2017.

Ad agire nei confronti di Feltri e Senaldi, il sindaco di Roma uscente, Virginia Raggi. Su queste colonne, i direttori hanno più volte spiegato i motivi per i quali la causa intentata dal primo inquilino della Capitale merita di essere rigettata. Il fatto nuovo, alla vigilia delle repliche previste nell’udienza del 5 ottobre, è una recente pronuncia della Corte costituzionale - per la precisione la numero 150 del 12 luglio 2021 - che di fatto sconfessa l’operato della procura laddove dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 13 della legge sulla stampa, la numero 47 del 1948. Si dà il caso che i pm vorrebbero arrestare Feltri appellandosi proprio a quell’articolo, che appunto prevede la «pena della reclusione da uno a sei anni e quella della multa» nel caso di una diffamazione commessa «col mezzo della stampa» (la cosiddetta diffamazione aggravata).

 

 

Peccato che i giudici del palazzo della Consulta - con la sentenza chela difesa ha già citato nella sua discussione - dichiarando «costituzionalmente illegittima nella sua interezza» la disposizione che prevede tout court la pena detentiva, abbiano certificato che quella imboccata dalla procura sia una strada sbagliata. Attenzione: per la Corte costituzionale, in astratto, «non può in assoluto escludersi la sanzione detentiva» a carico dei giornalisti. Ma questa pena deve essere applicata «nei casi in cui la diffamazione si caratterizzi per la sua eccezionale gravità».

 

 

E i giudici, nel paragrafo 6.2 della sentenza, facendo anche riferimento alla giurisprudenza europea, fanno anche qualche esempio: «Discorsi d’odio e istigazione alla violenza»; «campagne di disinformazione condotte attraverso la stampa, internet o i social media (...) compiute nella consapevolezza da parte dei loro autori della oggettiva e dimostrabile falsità degli addebiti». Minimo comune denominatore, tale da configurare «un pericolo per la democrazia», la capacità di combattere «l’avversario mediante la menzogna, utilizzata come strumento per screditare (...) agli occhi della pubblica opinione». Al di fuori di questi casi - chela stessa Corte definisce «eccezionali» - «la prospettiva del carcere resterà esclusa per il giornalista (...) restando aperta soltanto la possibilità che siano applicate pene diverse dalla reclusione».

 

 

I giudici della Consulta, cassando l’articolo 13 della legge sulla stampa, che appunto prevede l’obbligatorietà del carcere ad eccezione dei casi nei quali scatta l’applicazione delle “attenuanti generiche”, di fatto hanno riportato la gestione della diffamazione a mezzo stampa all’interno dell’articolo 595 del codice penale. Che al terzo comma - come scrivono i giudici nel paragrafo 4.3 - prevede la pena della reclusione (da sei mesi a tre anni) «o» della multa «non inferiore a euro 516». Il messaggio è chiaro: la sanzione del carcere deve essere inflitta solo in casi eccezionali. Ne tengano conto i giudici di Catania. 

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