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Mani Pulite, lo scandalo rivelato da Filippo Facci: "Il cronista che faceva l'autista per Di Pietro"

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Di Pietro in aula ai tempi di Tangentopoli

Filippo Facci
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La giusta distanza tra Milano e Montenero di Bisaccia - calcolando il percorso più breve - è di quasi 700 chilometri. La giusta distanza tra una fonte e un giornalista, invece, quel giorno fu di mezzo metro per sei ore filate: perché in auto, diretti ai funerali della madre di Antonio Di Pietro, a fare da autista a Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo fu Goffredo Buccini del Corriere della Sera. Pure autista. Era il 9 settembre 1994. A quelli del Corriere mancava solo di pulirgli casa, ai magistrati, o di fare le indagini al posto loro: e non è una battuta. Al Corriere infatti avevano un Cerved, un monitor verde che permetteva di accedere alle banche dati societarie e fare per esempio le visure camerali, e spesso, per questioni pratiche, il Pool dei magistrati telefonava direttamente in via Solferino e chiedeva il favore. Il Corriere dettava legge e la esercitava pure. Dei camerieri delle notizie, il pool dei cronisti, abbiamo parlato ieri: l'alta cucina, però, era materia dei gran cuochi e del masterchef Paolo Mieli, peraltro eletto per disposizione di Craxi perché un tempo era stato praticamente uno di famiglia. L'ennesimo errore di Craxi.

 

 

Comunque: i vari direttori si mettevano d'accordo a loro volta, un po' come i cronisti, per concordare titoli e prime pagine: Alessandro Sallusti chiamava Dario Cresto Dina della Stampa (il direttore può smentirmi, ovviamente) mentre Paolo Ermini chiamava l'Unità, che sua volta chiamava Repubblica perché Corriere e Repubblica non volevano sentirsi direttamente, essendo concorrenti agguerriti. C'era tutto un giro di telefonate tra Corriere, Stampa, Unità, Repubblica e talvolta anche Mattino; poi Mieli, sentite le notizie degli altri, le confrontava con le sue e decideva l'apertura del Corriere: dopodiché, ancora, i caporedattori ritelefonavano agli altri per informarli. Il direttore dell'Unità era Walter Veltroni, alla Stampa c'era Ezio Mauro, il caporedattore di Repubblica era Antonio Polito. Mieli e Mauro non hanno confermato, ma prima di Mieli, che divenne direttore dal 2 settembre 1992, c'era il reggente Giulio Anselmi, che si è limitato a dire: «Capitava che ci scambiassimo informazioni... Lo sbaglio è stato di aver riproposto l'idea che molti di noi, me compreso, avessimo un ruolo nella rinascita del Paese... abbiamo dimenticato a volte che le procure sono solo una delle fonti possibili e non la verità».

L'ACCORDO
Il primo a rivelare questo patto deontologicamente e democraticamente vergognoso è stato Piero Sansonetti, allora condirettore dell'Unità. Antonio Polito ha confermato: «Le cose funzionavano come dice Sansonetti... c'era un vuoto, i partiti pesavano pochissimo, il governo era altrettanto debole, perse in pochi mesi una decina di ministri che si dimettevano anche per le nostre campagne di stampa. Abbiamo interpretato e indirizzato l'opinione pubblica. Facemmo quel patto proprio perché il nostro peso era enorme. Quella scelta di federarsi fra giornali non fu buona, non la rifarei. Ma lo dico oggi». Furono organizzate campagne anche decisive magari nella scia dei comunicati indignati che la procura di Milano leggeva talvolta davanti alle telecamere: capitò col Decreto Conso e col Decreto Biondi. Per il primo caso, Polito l'ha messa così: «Giovanni Conso era specchiato, l'oggetto era tentatore e l'idea nemmeno campata in aria... Però decidemmo insieme di ostacolare quel decreto, di ostacolare la soluzione politica, di lasciare che i giudici andassero fino in fondo. E non fu difficile. In quel clima ci bastava scrivere "decreto salvaladri" e il gioco era fatto».

IL DECRETO CONSO
Piero Sansonetti è stato ancora più chiaro: «Il decreto non fu bocciato dal Parlamento, ma dal pool dei giornali... alle sette del pomeriggio ci fu l'abituale giro di telefonate con gli altri direttori e si decise di affossarlo. Il giorno dopo i quattro giornali spararono a palle incatenate, e tutti gli altri giornali li seguirono... Il Presidente della Repubblica si rifiutò di firmare il decreto, che decadde». Tra i pochi giornali non sdraiati sulle procure c'era Il Giorno diretto da Paolo Liguori, dove scrivevano firme come Andrea Marcenaro, Carla Mosca e Napoleone Colajanni. Suo antagonista naturale era L'Indipendente, dove ai brindisi all'avviso di garanzia si accompagnavano talvolta dei veri e propri ammiccamenti alla ribellione. La linea editoriale manettara del direttore Vittorio Feltri portò il quotidiano, partito quasi da zero, a superare le 100mila copie. Persino al Manifesto, storicamente garantista, a parte sporadici editoriali di Luigi Ferrajoli o Ida Dominijanni o Rossana Rossanda, la linea pro-giudici non conosceva soste. Parleremo un'altra volta del giornalismo di costume, più affine al fenomeno del dipietrismo e a ciò che scrissero senza pudore giornaliste come Camilla Cederna, Maria Laura Rodotà, Chiara Beria di Argentine, Laura Maragnani e persino molti uomini (tacciamo per solidarietà di specie) che descrissero Di Pietro come un sex symbol, tutta spuma attorno alle articolesse più seriose ma parimenti prostrate di editorialisti come Marcello Pera, Ernesto Galli della Loggia, Saverio Vertone, Paolo Bonaiuti, Maurizio Belpietro e Paolo Guzzanti.

 

 

NESSUNA CRITICA
Il dipietrismo fa parte del comico, non del conformismo che si traduceva in una sostanziale mancanza di libertà di stampa, e che, in caso di rare critiche all'operato della magistratura, doveva sempre essere preceduto da litanìe di premesse: premesso che l'azione dei giudici è salutare, che devono fare il loro lavoro e andare fino in fondo, che si limitano ad applicare la legge, che c'era un sistema che andava debellato, che le critiche rischiano di delegittimare la magistratura facendo calare la tensione nella lotta alla mafia, che bisogna evitare colpi di spugna (eccetera). Sulle tv poi servirebbe un trattato. Satira a parte (era dappertutto) sul Tg3 sembrava sempre che l'Armata Rossa fosse alle porte di Trieste. Tra i sovrani delle telepiazze brillò il solito Michele Santoro ma anche il cinico Gianfranco Funari (un talento) nonché il finto dimesso Gad Lerner. Va notato che Berlusconi, che ormai aveva ottenuto tutte le concessioni che gli servivano - e che prima di ottenerle aveva cercato di acquietare un pochino il «suo» Giornale - si rese co-protagonista della montante antipolitica e della sua pre-politica, lasciando ai suoi telegiornali assoluta briglia sciolta.

Secondo una ricerca, il 38enne Enrico Mentana (che dapprima, il 18 febbraio, dimenticò di dire che Mario Chiesa era socialista) sul suo Tg5 usò la parola «clamoroso» 54 volte in un mese, battuta solo da «polemica» (61 volte). Clamorosi gli arresti. Clamorosi gli sviluppi (delle inchieste). Clamorose le reazioni (suscitate dagli arresti, dalle inchieste, dagli sviluppi delle inchieste) e insomma un martellamento con sfondo sempre di auto che sgommavano, ammanettati che entravano e uscivano dal portone di San Vittore con la sporta in mano, ovviamente il solito Di Pietro con un filo di barba che passeggiava eternamente davanti al suo ufficio. Nel mese febbraio-marzo 1993 il tg di Mentana dedicò 61 notizie a Mani pulite contro le 27 del Tg1, 61 agli avvisi di garanzia e di custodia cautelare contro i 21 del tg Rai, 29 agli arresti contro i 12 del concorrente. Il linguaggio era da calamità naturale: bufere, cicloni, raffiche, tempeste, nubi, valanghe e uragani. Il 38 per cento dello spazio del Tg5, in febbraio e marzo, nell'edizione delle ore 20 era dedicato alle inchieste di Milano, il 18 per cento alla cronaca, appena un quinto dello spazio andava alla politica. Ma inchieste e politica erano ormai la stessa cosa. 

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