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Giustizia malata: tra postini e impiegati, ecco tutte le persone normali finite dietro le sbarre da innocenti

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Claudio Osmetti
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Vittorio, Antonio, Diego. Ma anche Lucia, Roberto e Domenico. Le loro non sono storie straordinarie, cioè che capitano per caso, una volta su un milione, eccezionalmente. Sono casi reali, di giustizia arrivata in ritardo, di strafalcioni durante i processi, nel corso le indagini. Solo dal 1991 al 2021 30.017 persone sono finite in custodia cautelare da innocenti, nel nostro Paese: vuol dire che più di mille disperati, ogni anno, entra in galera senza averne colpa. Come Vittorio, Antonio, Diego, Lucia, Roberto. E anche come Domenico, il cui caso rappresenta uno degli errori giudiziari più eclatanti dei tribunali italiani. I loro racconti, che state per leggere qui sotto, vengono dallo sterminato archivio dell'associazione Errorigiudiziari.com fondata dai giornalisti Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone. E dovrebbero riguardarci un po' tutti. Perché la malagiustizia non guarda in faccia a nessuno.

 

 

VITTORIO GALLO
Ha lavorato in quella filiale delle Poste per così tanti anni, Vittorio Gallo, che quando lo accusano di aver fatto il basista durante una rapina, proprio lì, allo sportello dove presta servizio ogni mattina, il primo a rimanere incredulo è lui. Roma, quartiere Portuense, 29 novembre del 2004: il calvario di Vittorio (che oggi ha 66 anni, un'invalidità al 100% e si è lasciato questa storia alle spalle solo a metà) inizia che pare uno scherzo. Gli investigatori la chiamano "la banda degli onesti" perché tra i suoi affiliati ci sono persone insospettabili. Come Vittorio: che lo è talmente tanto perchè non c'entra un tubo. È un lavoratore apprezzato, un sindacalista. Lo guardi, con i suoi baffi grigi, e non ti viene in mente un rapinatore. Infatti non lo è. Ma impiega la bellezza di tredici anni, Vittorio, per scagionarsi da quell'accusa, dopo 150 giorni di carcere e altri 210 ai domiciliari. Nel 2013, come se non bastasse, due anni dopo che l'appello lo proscioglie da ogni reato «per non aver commesso il fatto», la Corte dei conti deposita una sentenza che gli chiede un risarcimento di circa mezzo milione (più o meno il "bottino" mai recuperato dal colpo alle Poste). E pazienza se, nel frattempo, ha perso tutto: la casa, il lavoro, gli affetti.

ANTONIO LATTANZI 
Antonio Lattanzi fa l'assessore in un paese abruzzese, Martinsicuro. Poco più di 16mila abitanti e la vita di provincia dove gli scandali non succedono mai. Finché non capitano. È il 1996 quando viene arrestato per tentata concussione e abuso d'ufficio. Per un politico, per un politico del territorio, sono accuse che pesano. Le manette, tra l'altro, a lui le mettono quattro volte nel giro di due mesi: l'ultima ordinanza di custodia cautelare arriva che Antonio è ancora in galera. Lì, in una cella, passa 83 giorni: 83 giorni che non sono niente in confronto ai dieci anni della sua odissea giudiziaria, ma che sono una vita per chiunque abbia mai messo piede nelle patrie galere. L'assoluzione, per Antonio, arriva nel 2006. Ma poi viene anche la "beffa" finale, l'indennizzo per ingiusta detenzione che, sì, gli è riconosciuto, ma che ammonta appena a 55mila euro. Valgono così poco tre mesi dietro le sbarre? «È come se fossi stato raggiunto da una nuova ordinanza di custodia cautelare», commenta lui quando gli comunicano l'importo. E dire che, per tutto il processo, Antonio ha sempre dimostrato un profondo rispetto per le istituzioni. Che lo hanno lasciato solo nel momento più difficile.

DIEGO OLIVERI
Prova a sorridere, invece, Diego Olivieri. Lui, il carcere, l'ha vissuto come pochi altri: un anno intero (365 giorni) al regime di 41-bis. Quello duro, senza ore d'aria e possibilità di uscire. È un imprenditore di Vicenza, in Veneto, Diego. Commercia pellami, non ha niente a che vedere con la criminalità organizzata. Ma le dichiarazioni di un pentito lo incastrano (per modo di dire, un po' come è successo a Enzo Tortora: vero niente). Dice, il pentito, che Diego collabori nientepopòdimenoche con i delinquenti più delinquenti di tutti, cioè i mafiosi. Che faccia parte di un giro di narcotraffico, che abbia riciclato 600 milioni di dollari. Lo interrogano per ore, non parla. Sei-un-omertoso, gli rinfacciano. No, Diego è solo un innocente. Che viene sbattuto al fresco assieme a gente del calibro dei Brusca, dei Greco, dei Casalesi. Oggi ha quasi settant' anni e per l'incubo che ancora si porta addosso non ha ricevuto un centesimo di scuse. Non le scuse verbali che, per carità, pure quelle sarebbero d'obbligo: ma le scuse economiche, quelle che sono il risarcimento per i giorni di vita che lo Stato si è portato via. Il 25 maggio del 2017 la Corte di Cassazione respinge un suo ricorso e gli dà lo schiaffo finale: Diego deve addirittura pagare le spese processuali.

 

 

LUCIA FIUMBERTI
Non se ne fa una ragione nemmeno Lucia Fiumberti. La malagiustizia non colpisce mica solo gli uomini. Le forze dell'ordine bussano alla porta di Lucia alle 4:30 di notte. È il 2011. Senza troppe spiegazioni la portano al carcere di San Vittore, a Milano. Vive in provincia di Lodi, Lucia. Come Antonio abita nella campagna sonnacchiosa: lei, in Provincia, intesa come l'ente provinciale, ci lavora pure. Non ha neanche 28 anni quando finisce in carcere (le candeline le spegne che è ancora dentro, passa 22 giorni in prigione). "Falso in atto pubblico", c'è scritto sopra il suo faldone. Però è falso pure quel falso: nel senso che non è colpa sua. C'è un atto contestato e ci sono diverse perizie che lo dicono chiaro: le firme apposte non le ha messe Lucia. Chi l'accusa suggerisce agli uomini della procura che, in passato, abbia falsificato altri documenti, ma lei riesce a dimostrare che quando quelle carte sono state prodotte era in ferie.
Come ci sarebbe riuscita, di grazia? Le viene riconosciuto un risarcimento di 60mila euro, ma passano gli anni e superare il trauma si fa sempre più difficile. «Voglio che gli italiani riflettano su quanto possa essere semplice cadere in un tranello tessuto da persone di cui ti sei fidata».

ROBERTO GIANNONI
Roberto Giannoni la sua redenzione la prende con un abbraccio particolare. Sabato 3 settembre 2016, al giubileo della Misericordia. È un tipo molto credente, Roberto. Uno che non farebbe male a una mosca: figuriamoci se può far parte, e per davvero, di un'associazione a delinquere di stampo mafioso. Ma è quello di cui lo accusano. Il 3 settembre di cinque anni fa, tuttavia, davanti a 40mila persone, Roberto parla con papa Francesco. Gli racconta la sua storia. Il pontefice lo sceglie per la lettura di un intervento, Roberto non ce la fa a tirare dritto: trattiene a stento le lacrime. È allora che il papa si avvicina, gli stringe la mano, lo abbraccia. Passa un anno intero in galera, Roberto. Per false dichiarazioni di pentiti. Come è successo a Tortora, come è successo a Diego. È un bancario, fa il direttore della Cassa di risparmio di Livorno: lo arrestano il 19 giugno del 1992. Due collaboratori di giustizia hanno aperto un mutuo nella sua filiale, lui gliel'ha concesso perché, quando si sono presentati, avevano i documenti in regola. Ma poi sono iniziati i guai, loro si sono accorti che non potevano saldare le rate e l'han tirato in mezzo. L'hanno accusato di riciclaggio, traffico di armi, estorsioni, usura. Roberto, semmai, è solo "colpevole di essere innocente": «Non sapevo più come far capire ai magistrati che si stavano sbagliando» su ogni cosa.

DOMENICO MORRONE
Domenico Morrone in galera, per non aver commesso nulla, è rimasto quindici anni. Che fan 5.475 giorni. Che fanno una vita intera. E, diciamocelo subito: i quattro milioni e mezzo di risarcimento che i suoi avvocati sono riu.sciti a ottenere sono spicci se paragonati a quello che ha passato. Alle 13:50 del 30 gennaio del 1991, davanti alla scuola media Maria Grazia Deledda di Taranto, in Puglia, un sicario uccide due studenti. Un fattaccio di cronaca che scatena il panico e di cui parla mezza città. Una manciata di ore dopo i militari si presentano a casa di Domenico, che ha appena 27 anni, fa il pescatore, è incensurato e non ha mai preso neanche una multa. Lo fermano per duplice omicidio. Domenico lo dice subito: non-sono-stato-io. Ma non gli credono. Alcuni suoi colleghi si schierano dalla sua parte: non-è-stato-lui, ribadiscono, era-con-noi-a-lavorare-in-una-zona-completamente-diversa-da-quella-dei-fatti. Per tutta risposta si beccano un'accusa di falsa testimonianza. È che è uno schivo, Domenico. Uno che se ne sta in disparte, che non parla volentieri, che al massimo sgrida (questo sì) gli adolescenti che gli fanno i dispetti sotto casa. Gli rubano il motorino. Ma mica è un reato. Il processo di revisione si apre nell'ottobre del 2004 alla corte di appello di Lecce: piano piano viene fuori la verità, e cioè che i due ragazzi sono stati uccisi per vendicare lo scippo di una donna, che Domenico è stato messo in mezzo per errore, che lui non ha nessuna responsabilità.

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