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Assoluzioni senza appello, l'accusa impari a chiedere scusa

Iuri Maria Prado
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 Non mancheranno critiche a destra e a manca (anche a destra, anche a destra) a proposito dell'annuncio berlusconiano sull'inappellabilità delle sentenze di assoluzione. Importa abbastanza poco se davvero, col centrodestra al governo, quella riforma sarà fatta o no (è probabile che no) e se, dunque, si sarà solo trattato di uno spunto elettorale. Importerebbe, invece, se l'uscita del capo di Forza Italia fosse quanto meno l'occasione per discutere di un fatto indiscutibile: e cioè che troppo spesso si assiste a una pervicacia accusatoria che insiste per far processare qualcuno non perché l'assoluzione non convince, ma perché l'assolto non piace. Perché bisognava condannarlo punto e basta, non perché i motivi di condanna sono stati trascurati o valutati erroneamente.

 

 

 

Che l'accusa pubblica possa agire indiscriminatamente prima del processo in omaggio alla grande ipocrisia dell'azione penale obbligatoria, e altrettanto indiscriminatamente dopo, quando il processo si è concluso deludendo pretese punitive evidentemente infondate, è il segno di uno squilibrio di cui paga due volte il prezzo chi è vittima di quel potere sconfinato.

 

 

 

E ci sarebbero meno assoluzioni contro cui ricorrere, bisognerà dire anche questo, se ci fossero meno indagini campate per aria, meno giustizia a strascico, meno processi senza prove ma di cui andar fieri perché in ogni caso regalano titoloni di giornali e offrono tante belle tribune televisive da cui fare requisitorie senza il fastidio del contraddittorio. Naturalmente può capitare l'assoluzione sbagliata (meno ingiusta della condanna sbagliata). Ma, in linea di principio, quando uno è assolto, l'accusa pubblica dovrebbe chiedere scusa. Altro che appellare. 

 

 

 

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