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Iolanda Apostolico, la trasformazione dei magistrati in politici con la toga

Francesco Carella
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La tensione fra politica e magistratura si fa sempre più aspra. Si era nel pieno dello scontro fra Palazzo Chigi e un giudice di Catania a causa della mancata convalida del trattenimento di tre immigrati perché le regole appena varate dal governo erano state ritenute in contrasto con la normativa europea, quando altre fascine sul fuoco sono arrivate dal Tribunale di Firenze dove i giudici hanno negato il rimpatrio di un immigrato verso la Tunisia con la motivazione che quel Paese deve essere considerato non sicuro. L’uno e l’altro episodio rappresentano solo gli ultimi due capitoli di una tenzone che attraversa ormai da molti anni la storia del nostro Paese, colpendo in modo non irrilevante il sistema democratico nelle sue regole fondamentali.

 

 

Per capire meglio ciò che sta accadendo vale la pena di inquadrare il caso Italia in una dimensione sovranazionale. In tutte le democrazie occidentali è in atto un processo che mette in discussione il tradizionale equilibrio di potere fra la sfera della decisione pubblica e quella giurisdizionale. Due studiosi del diritto, Tate e Vallinder, in The global expansion of Judicial power chiamano un tale mutamento «giudiziarizzazione» della politica il cui effetto è «l’espansione del raggio d’azione dei tribunali e dei giudici a scapito dei legislatori e degli amministratori». Ed è in ragione di ciò osserva lo storico Lawrence Freidman - che oggi «ove esiste una legge vi è anche un magistrato che in qualsiasi momento può essere investito del compito di interpretarla e di applicarla».

L’ANOMALIA ITALIANA - In Italia l’alterazione dei rapporti fra sovranità politica e giurisdizione assume fin da subito, però, un carattere abnorme non riscontrabile in nessun altro Paese democratico. Si giunge al punto da trasformare il magistrato, in particolar modo se investito della funzione requirente, in un vero e proprio attore politico dotato del potere di condizionare l’attività dell’esecutivo se non addirittura di sindacare sui modi e sui tempi della stessa formazione dei governi. Le ragioni di una così marcata anomalia sono da ricondurre a due peculiarità della nostra storia nazionale, là dove negli ultimi trent’anni la presenza di una classe dirigente debole e incapace di elaborare una visione di lungo periodo ha permesso a una sinistra giustizialista di costruire un’egemonia culturale con al centro l’idea populista di potere fare a meno della politica attraverso un’azione di «risanamento morale del Paese».

 

 

Una convinzione che ha trovato continuità nell’urlo “onestà-onestà” che è stato il leitmotiv elettorale del M5Stelle. Sia la sinistra che i pentastellati hanno fornito, lungo questi anni, linfa vitale al populismo giudiziario e legittimato la trasformazione della figura del magistrato da “bocca della legge” a “guardiano della virtù” della classe politica. A coloro che si ostinano a negare l’urgenza di una radicale riforma della Giustizia ricordiamo le parole pronunciate dal giudice della Corte suprema americana, Stephen Breyer, il 7 aprile 2021 nel corso della Scalia Lecture a Harvard, quando disse che «se il pubblico vede i giudici come politici con la toga, la sua fiducia è destinata a diminuire. La legalità dipende dalla fiducia che le Corti siano guidate da princìpi giuridici e non dalla politica». 

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