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Quale censura, le intercettazioni per certi giudici (e giornalisti) sono un'arma di distruzione

 Marcello Degni

Gianluigi Paragone
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Da una parte hai un giudice della Corte dei Conti che parla più duramente della Schlein, anzi si permette pure di bacchettare l’opposizione sulla scarsa guerriglia parlamentare. Poi hai il solito dibattito sulla pubblicazione delle intercettazioni con tanto di petulante lamento sul bavaglio all’informazione.

Guardi entrambe le questioni e alla fine non puoi che ammettere che la saldatura tra informazione e giustizia non è mai venuta meno e che la magistratura non vuole che la si tocchi. Altro che riforme condivise.

«Con la nuova legge non potremmo mai leggere le intercettazioni sul caso Verdini», dicono oggi; ieri dicevano lo stesso per gente come Riccardo Del Turco, Calogero Mannino, i generali Mario Mori e Antonio Subranni (oltre all’ufficiale Giuseppe De Donno) o per il mio amico Marco Sorbara: gente sbattuta in prima pagina con accuse pesantissime e tanto di intercettazioni che sembravano già una condanna. E poi? Assolti. Come assolti sono stati alcuni politici accusati di aver fatto la cresta sui rimborsi: ricordate le mutande verdi di Cota? Lui e altri, assolti.

 

 

IL MEGAFONO DELLE PROCURE - La lista di gente che s’è vista rovinare la vita, sia nella reputazione sia nel proprio portafogli, è lunga. E allora mi domando se il diritto all’informazione di cui si lamenta un’aggressione non sia invece la carta più facile da spendere in un giornalismo che ha smesso di interrogarsi su questioni spinose, trovando più “redditizio” prestarsi come amplificatore delle tesi dell’accusa. Perché di questo stiamo parlando: di limiti messi all’indiscriminata voce delle procure.

Senza le intercettazioni - sento affermare - non avremmo mai sentito le verità nascoste della società che gestiva le autostrade italiane: ohibò, ci voleva il crollo del ponte Morandi per far emergere quello che già era noto ma che nessuno aveva il coraggio di dire in un Paese che si regge sull’intreccio di relazioni? Perché i giornalisti non indagano sul lobbismo dei grandi cartelli in Europa? Oppure su certi “servizi” bancari o su certe cartelle che partono da Agenzia delle Entrate o su come la gente per bene sia vessata nel quotidiano? Dobbiamo aspettare le intercettazioni? No, basterebbero buoni cronisti.

Ho letto le intercettazioni che riguardano il figlio di Verdini e a parte tanta spavalderia per ora vedo soltanto la tesi di una parte. Che non coincide con alcuna verità processuale o sostanziale. Per questo credo che una riforma che recida il nodo gordiano vada compiuta: di “normale” nella pubblicazione del lavoro di una sola parte processuale non c’è nulla, perché di “vero” non c’è nulla: c’è il pezzo di una ricostruzione. La quale è ben lontana dall’essere giudicata “verità processuale”; ma è sufficiente a generare mostri e crisi politiche.

 

 

GIOCO SPORCO - Lo dico con l’ammissione di aver usato anche io le intercettazioni al fine di alimentare un certo clima, sia chiaro. E sarei disposto a rifarlo se il gioco sporco resta questo, ma il gioco è viziato, mostruoso e soprattutto non ha nulla a che spartire con l’informazione corretta. Che infatti si guarda bene dall”approfondire per esempio ciò che il caso del giudice Marcello Degni rappresenta una volta di più: politicizzazione della giustizia. Un giudice della Corte dei Conti che arringa sui social come il più intransigente oppositore politico del governo sulla manovra finanziaria: «Occasione persa. C’erano le condizioni per l’ostruzionismo e l’esercizio provvisorio. Potevamo farli sbavare di rabbia sulla cosiddetta manovra blindata e gli abbiamo invece fatto recitare Marinetti». Qui non c’è nulla da contestualizzare: quel “potevamo” parla chiaro. Queste parole sono precise, inopportune e soprattutto rafforzano l’idea comune per cui la giustizia in Italia non è bendata ma ci vede benissimo. 

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