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Quanto costa la guerra delle toghe all'esecutivo

Altra stagione di conflitti tra giustizia e politica: il nodo è venuto finalmente alla luce, senz'ombra di sorta
di Ulpianosabato 1 novembre 2025
Quanto costa la guerra delle toghe all'esecutivo

4' di lettura

Se un merito si può dare a quest’ennesima stagione di conflitti tra giustizia e politica, è che il nodo è venuto finalmente alla luce, senz’ombra di sorta. Una rete culturale che attira le varie magistrature, incluse le autorità indipendenti e settori ampi della burocrazia, rende il controllo giuridico, nei fatti, alla stregua di un contropotere politico. L’opposizione al governo Meloni è qualcosa che sta più nelle iniziative dei giudici sull’immigrazione (severe) o sui manifestanti e occupanti le case altrui (miti) che non sui banchi parlamentari dell’opposizione. Andrebbe annoverata anche la sottovalutazione giudiziaria della ragion di Stato nel caso Almasri e la guerra di religione di quei giudici che hanno scambiato i balneari per pericolosi trafficanti. E infine la sortita della Corte dei conti, che mette alla berlina un progetto passato prima per una legge e poi per un’accurata approvazione governativa. E così un ponte che dovrebbe essere orgoglio dell’Italia, simbolo dell’unificazione alla penisola della Sicilia, diventa quasi una malefatta, un problema da trattare con gli alambicchi del giuridichese a colpi di commi e violazioni del sommo diritto europeo, con buonapace di qualche migliaio di aspiranti a un lavoro ben pagato.

Questa constatazione è comune all’opposizione, o almeno a quella capace di rimuovere il salame dagli occhi. Non dimentichiamo che la crescita edilizia della Milano del Pd è bloccata da originali posizioni dei pm. E dovremmo magari chiederci pure quale sarà la prossima città da sottoporre ad analoga disinfezione di legalità, facendo passare palazzi e case dentro l’ormai enciclopedico calzino da rivoltare. Se poi arriva Mario Draghi, che in Europa non era giusto un passante, e dice che con le sue regole l’Europa i dazi se li è messi da sola, capite bene che non c’è molto da aggiungere.

Perciò dovremmo passare oltre e chiederci: che fare? In un mondo così complicato, con l’Europa schiacciata tra le pressioni commerciali di Stati Uniti e Cina, ormai trasparenti dopo il vertice di qualche giorno fa, e con un debito pubblico gigantesco (bene lo spread basso, ma il debito resta), l’Italia può davvero giocarsi un futuro col fardello dell’antagonismo magistratuale? Certo, Meloni difenderà nel referendum la separazione delle carriere (attenti italiani, attenti a non perdere quest’occasione storica), la riforma della Corte dei conti, insisterà sul ponte, giocherà le sue carte per convincere l’Europa a sostituire qualche quintale di regolamenti con una buona dose di pragmatismo politico, ma servirebbe qualcosa in più. Se è vero che il problema è culturale, se la visione di una società tutta giuridica, fatta di regole e regolette, di falsi valori conditi solo da una direttiva o un europeismo di maniera è diventato il serpente incantatore delle nostre magistrature, si dovrà pur cercare di proporre una cultura diversa.
Il primo problema della magistratura è l’autoreferenzialità, la chiusura in un fortino giuridico che l’allontana dal resto del mondo, dal sociale, dai problemi della nostra economia, dalla crescita da cui dipendono anche le loro provviste finanziarie, da un mondo che accelera a velocità supersonica e che si vorrebbe invece interpretare andando al trotto. Ai magistrati sfugge talora il costo sociale, economico, finanziario, insomma sì, il costo politico di certe decisioni, come quelle che imbastendo indagini destinate a crollare alla prova dei dibattimenti, servono solo a diffondere la cultura del sospetto e la paura tra gli amministratori. Il secondo problema è una torsione illiberale della giustizia penale, che ha avuto inizio negli anni ’90 con Tangentopoli (con non poche forzature) e con la lotta antimafia (sacrosanta), ma che ha generato quel panpenalismo che ha ingessato buona parte della nazione.

Il terzo è la svalutazione della politica, con l’idea che l’attività amministrativa non sia figlia della democrazia elettiva e delle scelte politiche ma generata e governata da una macchina giuridica che, splendidamente complessa, resta chiusa in un sofisticato e sacerdotale dibattito tra addetti ai lavori e continuamente reinterpretata. Ma le conseguenze toccano la carne viva della società e il suo futuro. Certo, molto dipende dall’influenza della cultura progressista e – perché no – relativista e antioccidentale che ha rapito molte coscienze, dal tramonto della visione liberale, dalla vittoria delle impostazioni struttural-collettivistiche. È, anche qui, una “malattia dell’anima” (Copyright Javier Milei). Resta il fatto che il blocco riguarda le decisioni politiche (facciamo un ponte, limitiamo l’immigrazione, cacciamo i nostri balneari) e che le ragioni del blocco sono spesso imperscrutabili, avvolte nell’oscurità di ragionamenti giuridici che alla fine non sono in grado di spiegare qual è l’interesse vero, quello sostanziale, che difendono.

Allora, la politica (tutta) dovrebbe chiedersi, chi sono i giudici, come si formano, che tipo di cultura esprimono, che contatti hanno con la realtà che li circonda? Scoprirebbe molte cose interessanti. Ad esempio: che il percorso di formazione e aggiornamento è chiuso anch’esso nel fortino dell’autoreferenzialità; che il giudice non ha contatti con l’amministrazione e non conosce il mondo delle imprese; che non è istruito a temi di politologia, di storia, di economia; che arriva alla toga vincendo un concorso nozionistico che solo di giuridichese si nutre; che i giovani si preparano partecipando a corsi privati che ammanniscono alle giovani menti tonnellate di sentenze assommate l’una sull’altra, senza nessun ordine, per giocare al meglio il terno al lotto concorsuale. Ecco, se la questione è culturale, l’impegno della politica anche su questo terreno dovrebbe farsi sentire. Fidatevi, potrebbe venirne fuori dialogo e circolarità delle idee e renderebbe migliore il nostro Stato di diritto, nell’interesse di tutti, politica, giudice e soprattutto cittadini.