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Nemmeno il morto ferma la voglia di linciaggio

Giampaolo Pansa

Non riusciamo a liberarci della voglia di guerra civile. In politica, su media e internet trionfa l'insulto che può uccidere

Andrea Tempestini
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di Giampaolo Pansa Mario Monti ha l'aspetto terrificante di uno zombie, con la faccia coperta del sangue dei tanti esseri umani che sta sbranando. Uguali al premier sono i capi dei tre partiti che lo sostengono: Alfano, Bersani e Casini. Anche il terzetto dell'ABC ha gli occhi bianchi e il volto insanguinato dei morti viventi.  Erano queste le immagini repellenti di un video ideato da qualche cervellone dell'Italia dei Valori. Il filmino si concludeva con la facciona da agrario di Tonino Di Pietro, concionante sulla fine della maggioranza che sorregge il governo dei tecnici. Il capo dell'Idv garantiva che il trio ABC si era dissolto: «Al suo posto esistono soltanto dei morti viventi che hanno paura di andare alle elezioni perché saranno presi a calci nel sedere dagli italiani».  Giovedì 26 luglio il video con il relativo bla bla è rimasto per qualche ora sul sito dell'Idv. Poi qualche anima buona deve aver suggerito a Di Pietro di farlo sparire. Perché il filmino faceva davvero schifo e produceva più danni che vantaggi. Dal momento che era l'involontario autoritratto del regista.   Non mi sono stupito della trovata dipietrista. È da molto tempo che l'ex pubblico ministero di Mani pulite ci ha abituati alla sua specialità: l'insulto più volgare e fantasioso. Sino al novembre 2011 era Silvio Berlusconi il bersaglio quotidiano. Di Pietro paragonava il Cavaliere a una serie di dittatori sanguinari che avevano dato il peggio di sé in varie epoche storiche e in tante parti del mondo. Ho domandato a un amico psicanalista perché lo facesse. La risposta è stata lapidaria: «Perché Di Pietro conosce le proprie infinite debolezze. Ha paura di soccombere. E urlando vuole convincersi di essere forte».  Oggi il leader dell'Idv è più debole di prima. Bersani l'ha cancellato dalla lista degli alleati che il Partito democratico ritiene indispensabili. Anche il rampante Beppe Grillo sostiene di non averlo preso in nota. All'interno del partito sembra agitarsi una piccola fronda che, al momento, non esce allo scoperto.  Per questo insieme di circostanze non vorrei essere nei panni di Tonino. Mi fa pensare a un capo partito rinchiuso in un bunker che si fa sempre più stretto. Dunque è naturale aspettarsi che, di giorno in giorno, diventerà più furioso. E andrà molto al di là della trucida invenzione degli zombi.  Tuttavia, anche nella pessima congiuntura che lo affligge, Di Pietro ha conservato una perversa capacità di essere in sintonia con il clima che arroventa una parte della politica italiana. È una ariaccia fetida, dove si sparano le parole più nefande. Ad alimentarla ci pensa un vulcano pronto a eruttare qualsiasi bestialità: Internet. Protetti dell'anonimato, migliaia di perdigiorno frustrati si scagliano contro mezzo mondo.  Dopo la fine di Loris D'Ambrosio, il consigliere giuridico del Quirinale, si è letto sul web robaccia infame. Lo ha fatto notare Mario Calabresi, il direttore della Stampa. Venerdì, nell'articolo di fondo, ha osservato: «Una grande quantità di commenti apparsi su Internet alla notizia della morte erano assolutamente osceni. Nessuna pietà, nemmeno il più elementare rispetto dei morti, ma dileggio, ironia, complottismi. Un fetore nauseabondo».  Calabresi si sarà ricordato di quanto era stato detto e scritto sul conto di suo padre Luigi, prima e dopo l'assassinio. Lui ha una sensibilità diversa dalla nostra. Lo  aiuta a vedere più lontano di noi che non abbiamo vissuto una tragedia come la sua. Per questo ritiene, e lo ha scritto, che dobbiamo liberarci dell'istinto al linciaggio, «oppure saremo davvero perduti».  Condivido l'allarme di Calabresi, ma confesso di essere pessimista. Nelle viscere dell'Italia resiste, imbattuto, il virus della guerra civile. Ecco un rischio terribile per tutti, qualunque sia la bandiera politica che sventoliamo. Nelle guerre civili, che sono sempre guerre contro se stessi, non c'è spazio per la pietà. Tutti diventiamo nemici di tutti.  Se hanno ancora qualche potere, i media dovrebbero fare l'impossibile perché il virus non dilaghi. Purtroppo i media, a cominciare dalla carta stampata, sono lo specchio dell'Italia. E ne riflettono i molti difetti e le poche virtù. Aggredire chi non ti piace è diventato un obbligo e un vanto. Il Fatto quotidiano si lamenta delle critiche di Libero e di altre testate. Ma prima di strillare dovrebbe rileggersi che cosa è andato scrivendo per giorni e giorni contro D'Ambrosio, l'uomo da bruciare nell'intento di colpire il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.  Certe campagne di stampa sono davvero odiose e difficili da sopportare. Lo dico sulla base di un'esperienza personale. Nel 2003, per aver pubblicato Il sangue dei vinti sulle stragi compiute dopo il 25 aprile 1945, diventai l'obiettivo di Repubblica. Era il giornale dove avevo lavorato per quattordici anni e che apparteneva allo stesso gruppo editoriale dell'Espresso di cui ero ancora il condirettore. Eppure fu Repubblica il ferro di lancia dell'offensiva delle tante sinistre trinariciute che non accettavano un minimo di revisione della storia resistenziale e della retorica che la inquinava.  Allora avevo 68 anni, quattro più del povero D'Ambrosio, ma non ero predisposto all'infarto. A difendermi dalla tempesta di falsità scritte sul mio conto fu soprattutto la pellaccia di cronista abituato a sopportare le cose peggiori. Replicai colpo su colpo. E soprattutto mi infischiai della banda che mi assaliva perché avevo la certezza di aver fatto la cosa giusta. Ma non tutti hanno la mia fortuna.  Da quel momento sono trascorsi nove anni. L'Italia si è incattivita. Alla televisione vediamo talk show che si reggono soltanto sulle risse tra gli ospiti. Chi garantisce il litigio è bene accetto. Chi vuole ragionare sparisce dalla lista degli invitati. Prima o poi i conduttori otterranno la licenza di far scorrere il sangue. Potranno offrire pistole e coltelli da usare in diretta. Con la speranza furbesca di alzare un'audience sempre più in crisi.    Oggi, nella politica e sui media trionfa l'insulto che può uccidere. D'Ambrosio era una persona per bene, un giurista di valore, un servitore dello Stato di grande equilibrio. Un italiano molto diverso, e migliore, di quanti lo hanno lapidato. La sua scomparsa dovrebbe pure insegnarci qualcosa, no?  A me ha ricordato una verità che spesso noi giornalisti dimentichiamo. I media servono a spiegare ai lettori come va il mondo e non ad attaccare chi non la pensa come noi. Anch'io ho commesso molti errori in proposito. La polemica aggressiva è una droga che, alla lunga, ci divora e ci uccide.  Siamo in grado di sconfiggere questo nemico? E soprattutto vogliamo tentare di provarci? Ecco due domande che mi trovano privo di risposta.

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