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Cioccolati e gianduiotti, cosa ci mangiamo davvero: un grosso rischio in tavola

Davide Locano
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Le polemiche roventi scatenate dalla notizia che la proprietà turca della Pernigotti intende chiudere lo stabilimento di Novi Ligure e delocalizzare l' azienda, ha riportato l' attenzione sulla riconoscibilità del luogo di produzione dei dolciumi in genere e del cioccolato in particolare. Il tema non è secondario. Oltre ai pasdaran del made in Italy, pronti a boicottare i prodotti turchi «travestiti» da italiani (per farlo occorre conoscere lo stabilimento di lavorazione) c' è un' ampia fetta di consumatori attenti alla provenienza dei cibi che mettono nel carrello. E poco inclini ad acquistarne di fatti all' estero. Senza avventurarci nelle disquisizioni di politica alimentare sottese da questi atteggiamenti, mi limiterò a raccontare cosa si può leggere sull' etichetta del cioccolato e dei gianduiotti in particolare, che sono il prodotto storico della Pernigotti. La questione centrale riguarda l' obbligo di indicare sulla confezione lo stabilimento di produzione, reintrodotto dal Decreto legislativo 145 del 2017 che all' articolo 3, comma 1, recita: «I prodotti alimentari preimballati destinati al consumatore finale o alle collettività devono riportare sul preimballaggio o su un' etichetta ad esso apposta l' indicazione della sede dello stabilimento di produzione o, se diverso, di confezionamento...». Leggi anche: Riso Carnaroli, così l'inganno finisce in tavola LA BOCCIATURA DELLA UE In realtà sul Decreto 145 pesa come un macigno il «no» pronunciato dalla Commissione europea dopo la notifica del testo a Bruxelles. Nonostante la bocciatura dell' Eurogoverno, l' ex ministro delle Politiche agricole Maurizio Martina decise di pubblicarlo ugualmente sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana. Ma si tratta di una disposizione priva di valore giuridico. Visto che sull' etichettatura dei prodotti alimentari prevalgono le norme europee, segnatamente il Regolamento Ue numero 1169 del 2011, qualora un produttore e un confezionatore italiano omettano l' indicazione delle stabilimento di produzione, trasformazione o confezionamento e vengano multati per questo, possono bloccare qualunque azione sanzionatoria con un semplice ricorso al Tar. Il Tribunale amministrativo, infatti, non potrebbe che prendere atto della conformità del prodotto alle norme prevalenti, che sono appunto quelle europee. Nel caso di specie, i gianduiotti Pernigotti, l' azienda produttrice ha di fatto applicato il Regolamento europeo, indicando la ragione sociale e l' indirizzo della società - ma omettendo ogni riferimento allo stabilimento di produzione. A maggior ragione l' indicazione sull' impianto produttivo non ci sarebbe qualora i gianduiotti fossero prodotti da una Pernigotti delocalizzata in Turchia, pur conservando una filiale commerciale nel nostro Paese, con' è nelle intenzioni della proprietà. La Pernigotti turca sarebbe esentata dall' indicare lo stabilimento in quanto il Decreto 145 del 2017 ha validità esclusivamente sul territorio italiano. STRANIERI ESENTATI Accade la stessa cosa anche per l' indicazione d' origine obbligatoria che il governo Gentiloni ha introdotto per latte, formaggi, pasta e riso. Non sono pochi i prodotti di queste merceologie in vendita nei nostri supermercati che non recano alcun riferimento al Paese d' origine della materia prima. Proprio perché sono prodotti fuori dall' Italia. Né si può sperare che cambi qualcosa con l' entrata in vigore, nel 2020, delle disposizioni obbligatorie introdotte dalla Ue sull' indicazione d' origine dell' ingrediente primario. Nel caso dei gianduiotti l' ingrediente principale è lo zucchero, seguito dalle nocciole e solo in terza posizione, dal cacao. Questi meccanismi diabolici che impediscono ai consumatori di individuare il Paese di provenienza di un prodotto si devono proprio alle norme introdotte dalla Ue. Bruxelles, in nome dell' armonizzazione comunitaria ha reso indistinguibile la cioccolata prodotta a Novi Ligure da quella fatta a Vienna o Berlino. E questo agevola pure i produttori dei Paesi terzi, come la Turchia. Che possono delocalizzare impunemente le aziende italiane acquisite, continuando a etichettarne i prodotti come se fossero fatti da noi. Un meccanismo perverso, consentito proprio dai cartellini resi sempre più opachi dalla Commissione Ue. di Attilio Barbieri

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