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Ufficio, così il tuo capo può rovinarti la vita o ucciderti: malumore, disgregazione e rischio-infarto

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Daniela Mastromattei
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Nell'era della maleducazione dilagante ogni scontro diventa sempre più acceso. Il presente è segnato da una gara a chi urla più forte con la pseudo vittoria dell'arrogante capace di maneggiare l'arte della prevaricazione convinto che ascoltare gli altri sia solo una perdita di tempo. Le regole del comportamento sociale del resto sono leggi non scritte, qualcuno fa finta di dimenticarle. E qualcun altro non le conosce proprio. Le rare volte in cui qualcuno si rivolge in modo affabile scatta il retropensiero: dov' è la fregatura? Capita ai piani alti della politica, in famiglia, a scuola o sul lavoro. Nessuno insegna come relazionarsi. Nessuno insegna come comportarsi con i colleghi. Impariamo dall'esperienza, da ogni momento. Tutti facciamo così. E per fare il capo? Vale lo stesso. Per questo, il mondo è pieno di leader che improvvisano, si legge nel libro di Domitilla Ferrari "Il pessimo capo", edito da Longanesi (14 euro). L'autrice, esperta di marketing, parte dalle sue esperienze personali, per tratteggiare un utile manuale di resistenza e offrire preziosi spunti per non lasciarsi sopraffare. Il lavoro è prima di tutto un luogo di relazioni e interazioni, e la chiave per renderlo migliore, più efficace e gratificante sta nella leadership. Lavorare con gli altri non vuol dire occupare un posto o interpretare un ruolo, significa svolgere le proprie mansioni interagendo con altre persone; un buon capo sa scegliere chi è la più adatta a gestire un'attività che non significa soltanto chi ne ha le competenze, ma anche chi ha le capacità per risolvere un problema nei tempi che vengono richiesti o in emergenza. Per questo serve conoscere tutti. E bene. C'è un termine inglese che va molto di moda: networking (capacità di fare rete) ed è tra le caratteristiche principali di un buon manager, la chiave del successo insieme all'intelligenza emotiva.

 

 

 

IL MANIPOLATORE

Invece è più facile incontrare un "capo opaco", spiega la Ferrari, «un tipo convinto che mantenendo per sé conoscenza di fatti e persone sia l'unico modo per mantenere il potere». Personaggi che non condividono, mistificano, complicano la vita a sé stessi e agli altri. La manipolazione è stata per anni la modalità di gestione più diffusa, tipica del capo cresciuto a manuali americani sulla leadership. È del 2008 il libro "Comandare è fottere" di Pier Luigi Celli. Il team è cosa recente. E c'è chi, purtroppo, continua a ignorarlo. «Il pessimo capo non tiene riunioni, non discute di progetti in corso e spesso applica pure il metodo divide et impera, un classico del management anni '90, la regola degli imbecilli che crea malumore e disgregazione». E addio gioco di squadra. C'è chi proprio non vuole capirlo che tentare di manipolare gli altri è un esercizio inutile, non aiuta a essere più potenti, tantomeno a essere percepiti come leader. Eppure i pessimi capi ci provano ancora. Perché? Non sanno fare altro. «Sono degli insicuri e narcisisti, nel dubbio il problema sei sempre tu. Tendono a farti passare per incapace, a escluderti anche platealmente dai progetti di lavoro e dai processi di condivisione. Arrivando così a depotenziare la vostra motivazione». C'è pure chi non è in grado di fare il leader: è il «capo rovesciato, che guarda verso il basso perché non si sente abbastanza sicuro a guardare verso l'alto e il suo agitarsi a vuoto fa emergere solo confusione. Non si fida di sé stesso, né delle sue competenze, di conseguenza non si fida nemmeno di te perché è probabile che quelle competenze non le sappia neppure riconoscere». E pensare che il compito del leader è proprio semplificare attività, processi e relazioni puntando agli obiettivi e cercando di realizzarli al meglio. Ovvio che un pessimo capo crea dei pessimi collaboratori e un pessimo prodotto finale. In armonia si lavora meglio, con entusiasmo e voglia di fare si punta in alto, non alla fine della giornata. Ma al peggio non c'è mai fine. Il peggior "boss" che ti possa capitare, spiega l'autrice, è aggressivo al limite (o oltre il limite) di ogni comportamento scorretto, non accetta un no come risposta anche quando è l'unica giusta. È maleducato, scorretto, sessista, è uno che infrange non solo la business etiquette, ma pure le normali regole di convivenza civile; si definisce diretto, schietto, ma il più delle volte è solo un prepotente, un prevaricatore che alza la voce con aggressività. E che dire del competitivo, del procrastinatore, dell'eterno scontento e di chi non sa delegare pensando che lui sia l'unico "abilitato a produrre" e che gli altri siano degli incompetenti assunti per caso? Come sarebbe bello il mondo senza superbia e strafottenza. La deriva antropologica che ha spento del tutto modestia, rispetto, onestà intellettuale, correttezza e garbo risiede in un accumulo di frustrazione, rabbia mista a indignazione, invidia sociale mescolata a risentimento. Qualcuno sostiene che siamo diventati un popolo di cafoni, con qualche rara eccezione.

 

 

 

DANNEGGIA LA PRODUTTIVITÀ

Se fosse solo una questione di etichetta e galateo potremmo chiuderla qui e dire banalamente pazienza, ce ne faremo una ragione. Invece è quel dover fare i conti ogni giorno con un cattivo capo, responsabile di intossicare l'ambiente di lavoro, danneggiare i risultati e deteriorare la nostra salute mentale che porta tre lavoratori su quattro a detestarlo. Robert Hogan dell'Università della California ha effettuato la ricerca in varie parti del mondo e con cadenza regolare dagli anni '50 al 2020, e i risultati sono pressoché identici: il 75% dei dipendenti riferisce che il proprio superiore è l'aspetto più stressante del lavoro. Non solo. «Se hai un buon capo hai un rischio d'infarto inferiore almeno al 20%, e se rimani con quel capo per quattro anni il rischio cala del 39%», secondo la dottoressa Anna Nyberg. In sintesi, mai lasciar correre, non permettete ai cattivi boss di continuare... indisturbati. 

 

 

 

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