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Vaccino, via libera alla 4° dose: chi non può evitarla, dubbi dei virologi. Quali rischi si corrono?

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Claudia Osmetti
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Il tam-tam va avanti da settimane. Ma forse, adesso, una svolta c'è. L'Ecdc (il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie) e la task force sul Covid dell'Ema (l'Agenzia europea per i medicinali) aprono alla possibilità di somministrare la punturina numero quattro agli ottantenni. È una possibilità (appunto): non un'indicazione stringente, né una di quelle "raccomandazioni" che, in due anni di pandemia, abbiamo imparato a conoscere. Però è un punto di partenza, ed è qualcosa: vuol dire che la quarta dose (allo stato dell'arte da inocularsi con un vaccino a mRna di quelli già utilizzati, quindi Pfizer o Moderna) ai soggetti anziani non fa male. Per tutti gli altri, per la popolazione generale, spiegano ancora Ecdc e Ema, è «troppo presto».

 

 

Per capire se darla anche a loro, servono più dati, più analisi, più studi. Come quello condotto in Israele sotto l'egida del ministero della Salute di Gerusalemme, secondo il quale un'ulteriore richiamo anti-Covid triplicherebbe la protezione contro la malattia grave nelle persone che hanno più di 60 anni. Li hanno pubblicati sul New Englandjournal of medicine, gli israeliani, i loro risultati e però, di contro, hanno anche scoperto che la barriera issata dalla quarta dose contro il tasso di infezione è poca (e breve) cosa. Da noi, invece, è il sottosegretario alla Salute Andrea Costa (Noi con l'Italia) a specificare che «saranno le autorità medico-scientifiche a stabilire come e quando intervenire, ma non ci sarà una quarta dose. È giusto iniziare a parlare, piuttosto, di "richiamo», come si fa già per tanti altri vaccini». Insomma, Europa o no (tra parentesi: 83% dei cittadini comunitari ha completato il proprio ciclo primario di vaccinazione e solo il 64% ha optato anche perla booster), il dibattito resta aperto.

 

 

In questo senso, sulla quarta dose si è già espresso Arnaldo Caruso, presidente della Società italiana di virologia, secondo cui «una quarta dose, fatta ora con lo stesso vaccino, vecchio e di almeno 2 anni e mirato contro un ceppo virale ormai non più presente nel mondo, è un assurdo». Dopodiché c'è Speranza. Nel senso che a dirlo, questa volta, è il ministro della Salute, Roberto Speranza (Leu): «Stiamo lavorando alla territorializzazione. L'idea è di arrivare a consentire la prescrizione (dei farmaci antivirali contro il coronavirus, ndr) anche ai medici di medicina generale per favorirne un accesso più capillare». La buona notizia arriva ieri nel corso di un Question time alla Camera, e non è una sciocchezza. Qui a Libero l'aveva raccontato, manco dieci giorni fa, il virologo dell'Università Bicocca di Milano, Francesco Broccolo: è che gli antivirali, noi, li abbiamo già comprati, solo che ottenerne uno è una corsa a ostacoli. Prima il medico di base ti manda in un reparto di Malattie infettive, poi dottori qualificati verificano la tua idoneità al trattamento e solo allora puoi ingoiare questa pillola.

 

 

Di rischi ce ne sono almeno due: non fai in tempo a mettere la mano sul blister (si possono somministrare entro le prime 72 dalla comparsa dei sintomi) ed è uno spreco di soldi perché il conto per acquistarli l'abbiamo già saldato. Quindi ben venga Speranza che annuncia: «Nella giornata di martedì ha iniziato a lavorare su questo il Comitato tecnico scientifico dell'Aifa (al secolo, l'Agenzia italiana del farmaco: ndr) e penso che sia la direzione giusta per promuovere una maggiore vicinanza e una più veloce somministrazione». Dopotutto chi, meglio del proprio medico di famiglia, sarebbe titolato a farlo? Ha ragione, il ministro a voler schiacciare l'acceleratore «ora», fa sapere, «che abbiamo più dosi, perché quelle che sono arrivate in Italia nella prima fase erano un numero molto limitato». «Si tratta di un atto dovuto per la gestione concreta della pandemia che si sta evolvendo in endemia», gli fa eco Silvestro Scotti, segretario generale del sindacato dei medici di famiglia Fimmg. Sarà pure "di parte", Scotti, però centra il punto: «È evidente che la possibilità di avere una terapia, in questa situazione, ci fa giocare una partita diversa con i nostri assistiti più fragili».

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