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Esselunga, cosa c'è dietro alla guerra della sinistra a Caprotti

Pietro De Leo
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E così Esselunga, con questo dibattito nato attorno allo spot, conquista la scena del dibattito pubblico. Di nuovo, come tante altre volte avvenuto in passato. Perché Esselunga è un’impresa intrecciata con la storia del nostro Paese, ha catalizzato parte di un immaginario collettivo che ama le dinastie, i patriarchi e le loro storie di pionerismo e ruvidezza. Quella dei Caprotti, e soprattutto di Bernardo, che ha lasciato questo mondo al 2016 a 91 anni, risponde a questi requisiti. È una storia che parla di una dynasty, certo, ma anche della nascita di un colosso della grande distribuzione che portò una pezzo di sogno americano in Italia.

Spesso capita che le epopee inizino da un felice miscuglio tra il rocambolesco e il fortuito. Per Esselunga, siamo alla fine degli anni ’50, fu così, non c’è dubbio. Lo prova il modo in cui Caprotti, e il suo socio Brunelli, vennero a sapere, ascoltando una conversazione in un hotel, che il magnate americano Nelson Rockefeller voleva aprire alcuni supermercati in Italia. Fanno di tutto per incontrarlo, ci riescono battendo sul tempo la Rinascente e parte il mito. Scandito dallo sbarco in Italia dei “supermarket” costruiti, allestiti ed organizzati rispettando fedelmente il modello americano. Però è noto che, in Italia, ogni corpo estraneo, che guarda oltre, azzarda e vince, ha vita difficile. E qui si entra nel lungo racconto dello scontro che Caprotti ebbe con le Coop, anch’esse ben piazzate nella grande distribuzione.Lui le accusò costantemente di aver ostacolato l’approdo di Esselunga nelle regioni rosse e di varie irregolarità. Ne nacquero infinite guerre legali, accuse di abuso di posizione dominante, carte bollate e una lunga pubblicistica giudiziaria.

 

 

 

Ma ne nacque anche un libro nel 2007, “Falce e Carrello”. Nel volume, Caprotti denuncia pratiche scorrette a suo danno da parte delle Coop, e delinea l’intreccio di quest’ultime con varie ramificazioni del potere politico della sinistra. Quel libro non fu soltanto il racconto di genesi e sviluppo di una lunga storia d’impresa (in cui non vengono risparmiati neanche i rapporti difficili con i sindacati), ma anche la summa di uno scontro culturale. Il manicheismo tra sinistra e mondo libero, tra egemonia e libertà. D’altronde, erano pur sempre gli anni del berlusconismo, e Caprotti, che al Cavaliere guardava con simpatia come prima aveva guardato a Bossi, portava acqua al mulino di quel racconto lì, del coraggio dell’outsider che lotta con tutte le tue forze contro il groviglio rosso tra potere politico e tessuto economico. Il libro fu bersagliato da denunce, per diffamazione e concorrenza sleale. A volte Caprotti esce vincitore, altre no. Il libro fu ritirato da mercato per poi farvi rientro, qualche anno più tardi, in un’ edizione aggiornata.

 

 

 

Ma la selva di carte bollate non soffocò per nulla il cuore vero della questione: il messaggio all’opinione pubblica era arrivato, forte e chiaro. E quelle pagine avevano ben disegnato il dualismo tra Esselunga-Coop, specchio di un Paese spaccato in due come una mela, con Caprotti ben piazzato dalla parte dei liberi. Il personaggio, poi, aiutava: favella spontanea, pochi fronzoli e parole lapidarie, da imprenditore del Nord. Insomma, il mito era ben solido e, come tale, avrebbe parlato anche dopo la morte di chi ne aveva scritto il primo tratto. Avrebbe continuato a raccontare: dalla segretaria destinataria, nel testamento, di ben 75 milioni di euro, metà dei risparmi personali dell’imprenditori fino alle cronache sul riassetto societario. Oggi, anche una vicenda effimera come quella dello spot ci riporta lì, al simbolo di un’Italia tenace e laboriosa.

 

 

 

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