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Salario minimo? Ecco perché fa abbassare gli stipendi: come stanno le cose

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Marco Proietti
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Cgil in piazza per parlare di salario minimo con toni sempre più alti, eppur sembra mancare una certa corrispondenza tra quei vertici e la base, coloro i quali lavorano e vivono all’interno dei meccanismi contrattuali definiti proprio da tali corpi intermedi. Si chiede a gran voce il salario minimo, ma anche il Cnel sembra essere stato piuttosto chiaro sul tema.

Tuttavia, all’interno del dibattito politico più recente, molto spesso, i sostenitori del salario minimo giustificano la propria posizione affermando che la previsione di una retribuzione oraria fissata per legge possa agevolare l’occupazione; questa presa di posizione viene per lo più sostenuta, in modo estremamente superficiale, citando ad esempio alcuni casi di paesi esteri che hanno già introdotto un sistema simile nel proprio ordinamento, non solo di area Ue, ma poi dimenticando di fare un confronto con i dati che sono emersi dopo un periodo più o meno lungo di attuazione.

Uno di questi studi è stato pubblicato dalla Harvard Business Review, il titolo per esteso è Research: when a higher minimum wage leads to lower compensation, nel giugno 2021 e analizza gli effetti del salario minimo che negli Usa è stato introdotto nel 2009, con legge federale, per un valore base di 7,25 dollari e liberamente migliorabile da ogni Stato; dal 2009 a oggi sono ben 30 su 51 gli Stati che hanno aumentato il valore del salario minimo, con l’intento di garantire una maggiore appetibilità per le imprese che, almeno in teoria, riconoscendo uno stipendio più alto dovrebbero essere maggiormente attrattive sul mercato. Lo studio, tuttavia, fa emergere un dato molto meno romantico: negli Stati dove il salario minimo è più alto le aziende hanno risposto riducendo l’orario di lavoro per i dipendenti assumendone di più part time.

Lavorare meno, lavorare tutti? Non esattamente. Per ogni aumento di 1 dollaro del salario minimo, è stato riscontrato che il numero totale di lavoratori programmati per lavorare ogni settimana è aumentato del 27,7% mentre il numero medio di ore lavorate da ciascun lavoratore è diminuito del 20,8%. Questo significa che il salario minimo negli Usa ha determinato una drastica riduzione degli stipendi medi percepiti da tutti i lavoratori, poiché le ore di lavoro garantite sono nettamente inferiori.

Dunque, vi è un sostanziale impoverimento del lavoro. Questo genera un mercato, al ribasso, della forza lavoro, in particolar modo quella meno qualificata: immaginiamo un sistema dove più paesi applichino un salario minimo con valori diversi, chiaramente i lavoratori che provengono dai paesi con la retribuzione più bassa saranno molto più appetibili per le imprese. In Germania, ad esempio, l’introduzione del salario minimo sta causando esattamente lo stesso effetto visto negli Usa: un aumento simbolico degli assunti, ma una riduzione drastica delle ore di lavoro e del potere di acquisito dei dipendenti. Si moltiplicano pratiche elusive come, ad esempio, l’uso del lavoro straordinario non inserito in busta paga oppure direttamente l’utilizzo di lavoratori non contrattualizzati, dunque “in nero”, per poter mantenere stabile l’asticella del costo aziendale a fine anno. Per altro verso il salario minimo, aumentando il costo del lavoro, determina anche un progressivo aumento dei prezzi del consumatore e quindi un aumento dell’inflazione.

E cosa succederebbe in Italia? Il salario minimo legale è semplicemente inapplicabile in Italia. Le aziende, pagando retribuzioni fissate per legge secondo una logica “piatta” si troverebbero a non sapere come garantire gli stipendi, gettando via annidi relazioni industriali che hanno consentito di diversificare le retribuzioni per le varie categorie; a ben vedere, infatti, sarebbe impossibile pagare mansioni diverse in settori diversi, con fatturati estremamente eterogenei, senza una distinzione merceologica specifica: in un paese come il nostro, che “vanta” il cuneo fiscale più alto d’Europa, oltre il 60%, il salario minimo significherebbe dichiarare la fuga dai rapporti di lavoro subordinato in favore di strumenti flessibili, dalle collaborazioni autonome alle partite iva, o verso il lavoro sommerso e quindi non regolarizzato. 

In questo senso, l’Ocse ci ricorda che ogni anno, in media, vengono corrisposti poco più di 300 miliardi di euro nel settore privato, con il cuneo contributivo che pesa al 33% e quello fiscale al 26%, è chiaro che con questi numeri una misura come quella del salario minimo legale è pura fantascienza. Altro aspetto preoccupante è il rischio di scavalcamento dei sindacati, che dunque non avrebbero più alcun ruolo nella contrattazione, riducendo erroneamente i vari settori ad un unico grande calderone normativo. Forse è inutile ma vale la pena ricordare che le tabelle retributive dei contratti collettivi sono redatte secondo specifici criteri e sono frutto di una continua trattativa tra le aziende, le associazioni di categoria e i sindacati, garantendo cosi l’equilibrio del sistema. Dunque più che un salario minimo è preferibile ragionare sul concetto di rappresentanza sindacale, mettendo finalmente mano ad una legge che faccia chiarezza sull’argomento. Fa riflettere, e molto, che sia proprio una parte politica culturalmente vicina al sindacato a volere a tutti i costi il salario minimo e, di conseguenza, la cancellazione del ruolo delle parti sociali. I tempi cambiano, non sempre in meglio.

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