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Patriarcato? La grande corsa a vergognarsi di essere maschi

Francesco Specchia
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L’inferno ci ha vomitato dal suo ventre, e noi non lo sapevamo. La cronaca registra uno degli omicidi più efferati degli ultimi anni (ma ce n’erano di peggio: Elisa Ciotti, Giulia Tramontano, Nadia Orlando, grani d’un rosario terribile...) e, in quanto uomini, all’improvviso, ci ritroviamo sprofondati in un senso di colpa collettivo. Noi uomini: esseri malvagi, fetenti, ingannevoli, e inevitabilmente figli di una «cultura di destra repressiva» e patriarcale, dice la Cgil.

Anche se poi, a ben vedere, la Meloni cresciuta tra donne e senza padre è la cosa più matriarcale sulla piazza.L’assassinio di Giulia Cecchettin e i suoi strascichi emotivi hanno invaso gli ambiti dello scibile e, a sfogliare i giornali e a leggere i sofferti labiali dei talk tv, il refrain è lo stesso: «Ci vergogniamo di essere maschi, chiediamo scusa per esserlo».

DI RIMORSO IN RIMORSO
Chiediamo tutti scusa. Un sorta di seppuku, di rituale suicida con la katana del vittimismo che passa di mano in mano, di testata in testata, di rimorso in rimorso. La spinta all’autoflagellazione inizia con Francesco Piccolo su Repubblica, a cui non piacciono «gli uomini che si sottraggono all’accusa di essere violenti», uno dice: giusto. Poi però Piccolo s’inerpica su pensieri accidentati spiegando che «non esiste il maschio progressista»; e che «ci possono essere persone progressiste, moderne, rivoluzionarie. Ma se queste persone sono uomini, in quanto uomini non lo sono più». E sembra un calambour di Marzullo. E, per spiegarlo, Piccolo stila un elenco di nefandezze (dall’arroganza alla prepotenza alla volgarità) che appiccica a taluni maschi ma che possono tranquillamente adattarsi a certe femmine.

Anche il Corriere della sera commissiona la contrizione collettiva a uno scrittore. E lì Paolo Giordano scrive sulla necessità di «costruire l’affettività»: e che «la possibilità della sopraffazione è il segreto meglio custodito dagli uomini, e che tutti gli uomini conoscono. Tutti gli uomini, anche i mansueti. Ognuno di noi (maschi), al cospetto dell’omicidio di Giulia Cecchettin, riconosce in sé l’eco dell’ascesso psichico dal quale talvolta scaturisce l’aggressione: un bolo di possesso, frustrazione, inadeguatezza, odio, invidia,desiderio di punizione...». Che, poi, io ho pure chiesto al mio barista, al benzinaio, al portiere, persino ai colleghi davanti alla macchinetta del caffè se, da uomini, si sentissero dentro «l’ascesso psichico» e «il bolo di possesso», ma la risposta è stata irriferibile. La parola «femminicidio» ci porta dritti al lavacro penitenziale.

Mattia Feltri sulla Stampa cita Hannah Arendt e la «responsabilità collettiva» dell’Olocausto, ma allora uno potrebbe pure citare Anna Frank che crede nell’ «intima bontà dell’uomo», aguzzini maschi compresi. Luca Bottura ci va giù col piumino ed evoca «mestatori di letame radiofonici, ministri della cattiveria, semplici facce di tolla che pensano di potersela cavare con un tweet generico, valditara assortiti pensano bastino un post intinto nell’ipocrisia»; e poi si scusa. Si scusa disperatamente, forsennatamente, in quanto colpevolmente maschio anche se Bottura è di una mitezza evangelica. Si scusa Piero Pelù (ma le sue fan gli ribattono: «Piero cosa c’entra l’uomo con lo psicopatico?»); si scusa Francesco Renga; si scusa perfino Antonio Tajani. 

Qua si scusano tutti, che poi è come se non si scusasse nessuno. Sembra di essere in quei film di Marco Ferreri, L’ultima donna o Ciao maschio, scena d’autocastrazione compresa.

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