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Quelle vittime che le femministe dimenticano: la grande confusione

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Lorenzo Mottola
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Attenti, arrivano le femministe. Lo abbiamo annunciato nei giorni scorsi: sabato le compagne di Non una di Meno hanno preparato una mobilitazione generale. Si terranno manifestazioni in tutta Italia per Giulia Cecchettin, ovviamente addebitando al governo la responsabilità di tutti mali del “patriarcato”. La colpa di Giorgia Meloni sarebbe di aver «prodotto un’opposizione solo formale a questi fenomeni», ovvero «femminicidi e transcidi» e «sferrato attacchi continui contro l’educazione alle differenze». Così si va in piazza per tutte le vittime di violenza: «Donne, persone non binarie e LGBTQIAPK, con disabilità, persone razzializzate, migranti e seconde generazioni, sex workers e detenut*».

Un elenco che lascia aperti vari interrogativi. No, non alludiamo al linguaggio, che a furia di sperimentare nuove varianti “inclusive” è arrivato ai confini della realtà (le «persone razzializzate», la sigla LGBTQIAPK che ormai occupa mezzo articolo perché ogni settimana viene aggiunta una lettera etc.). Il vero problema è: sicuri che le femministe non abbiano dimenticato qualche “compagna”?

QUESTIONE CULTURALE
È curioso vedere tra le categorie offese dal “patriarcato” i migranti. Eppure l’immigrazione è proprio uno dei problemi per quanto riguarda le violenze femminili. Lo dicono i dati riportati nel pezzo di Tommaso Montesano qui sopra: l’incidenza dei casi da telefono rosa tra gli stranieri in Italia è drammaticamente alta, commettono sei volte più reati di questo genere rispetto agli italiani. In parte per una questione di marginalità.

 

Marginalità spesso creata dall’immigrazione clandestina (leggere: sbarchi a Lampedusa). La cronaca recente lo insegna: spesso gli stupri sono commessi da sbandati che dormono all’aperto nelle nostre città. Oltre a ciò, esiste una questione culturale. Il primo riferimento a casi come quelli di Hina e Saman, ragazze uccise dai parenti perché rifiutavano di sottomettersi ai costumi dei Paesi di origine. Ma ovviamente non bisogna arrivare a tanto: se parliamo di islam, troviamo Paesi dove alle donne non è permesso usare una bicicletta, figuriamoci rispondere al marito.

Eppure nella foga di scagliarsi contro il bianco maschio etero (o meglio, contro il Centrodestra) si mischia un po’ tutto. Anche la guerra in Palestina, accusando l’Italia di sostenere «la repressione e genocidio delle nostre sorelle Palestinesi», continua il comunicato. Perché «lo Stato italiano deve smetterla di essere complice di genocidi in tutto il mondo e schierandosi in aperto supporto dello Stato coloniale di Israele».

Ora, pare che qualcuno abbia dimenticato che parliamo di una porzione di mondo dove le donne non hanno sostanzialmente alcun diritto. Le “sorelle di Gaza”, sono vittime della repressione di Hamas, prima che di quella israeliana. Una delle strategie dei terroristi della Striscia in passato è stata quella di usare donne-bomba. Hanno mandato alla morte perfino una madre di sei figli e una madre di due minori di 10 anni. Altre vittime completamente dimenticate dalla retorica del femminismo di sinistra.

 

VITTIME DIMENTICATE
Le altre vittime dimenticate vivono dall’altra parte della barricata, ovvero in Israele. Quelle donne che il 7 ottobre scorso hanno dovuto subire gli orrori più atroci perpetrati dagli esaltati di Hamas. Stupri di gruppo, ragazze incinte sottoposte a irripetibili trattamenti disumani. Eppure non si trova notizia di mobilitazioni, manifestazioni, cortei, presidi né per le donne dei kibbutz né per i tanti casi di nera legati all’immigrazione o per le vittime della cultura islamica. Si scende in piazza solo quando serve. Ovvero quando si può strumentalizzare.

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