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Antonio Franchini, il nuovo romanzo racconta il dramma di essere madri e figli

Pietrangelo Buttafuoco
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A zero stanno le chiacchiere di genere e dunque altro che Genitore 1 e Genitore 2. Questa del vivo fuoco tutto dentro di Antonio Franchini – il Vecchio della Montagna per eccellenza nella nostra letteratura – è la Madre Generatrice del terremoto chiamata vita. Antro ripugnante di appassionata alchimia sentimentale, fetida ferita genitale da cui germoglia l’odio assoluto dell’esistenza capovolta nell’amore filiale, questo è Il fuoco che ti porti dentro, un romanzo edito da Marsilio con cui Franchini squarcia i propri visceri come in un vittorioso harakiri mostrando a tutti noi lettori il sé profondo, l’opacità segreta di madre e figlio in un inaspettato Edipo a Napoli più che a Colono. Un Edipo che sibila: «Mi fa schifo chi mi ha messo al mondo». Tutto dal vero è questa scrittura, dunque tutta viva carne di un viaggio chiamato amore con questa sorta di strega – una donna egoista, per niente accogliente – mamma malgrado priva di qualunque virtù materna.

Oltre duecento pagine in un magnifico concerto corale di letteratura dove lei – solo lei, sempre lei, la Generatrice – si dispiega in tutta la sua prorompente negatività. Ed eccola entrare in scena: "Benché da molti sia considerata una bella donna, mia madre puzza". E così, di seguito, dai visceri di Franchini – nell’istante del suo seppuku messo per iscritto – si dipana un feroce atto di accusa verso una donna che fin dai ricordi di bambino, non è possibile amare. Angela Izzo, figlia di un muratore – lei è la protagonista – è l’esatto contrario di una buona madre. Nulla ha del prontuario soccorrevole della buona mammina. Un’educazione alla rovescia, la sua, con cui disintegra i riferimenti più elementari. Sensuale e magnifica di selvaggia bellezza ella disprezza i valori che ciascun genitore, con fatica, prova a trasmettere alla propria prole. Gli uomini fanno schifo, le donne sono tutte zoccole, l’amicizia non esiste – è solo una forma di debolezza, questa la sua tiritera – contano solo i legami di sangue, ma aggiunge: non si sa mai. Mai fidarsi di nessuno. Nessun ritegno, nessuna forma di pudore e nemmeno l’ipocrisia delle buone maniere tengono a freno i giudizi sferzanti, i pareri anche più stridenti e offensivi che Angela Izzo, la figlia del muratore rimasta orfana da bambina, esprime, tanto da suscitare nel destinatario, il figlio, un tale disorientamento, da lasciarlo senza parole: "Chi più osa, meno paga".

 

 

La penna di Franchini è la lama con cui il figlio più che lo scrittore rovista se stesso alla ricerca del più nascosto grumo dove la bella Angela che sposa un uomo più vecchio di vent’anni forma l’improbabile coppia genitoriale in cui ciascun membro del quadretto nutre aspettative così diverse da essere irrealizzabili. Lei è la donna generatrice dalla vitalità prorompente, lui è un vero gran signore, elegante, contenuto nei modi, appartenente alla buona borghesia napoletana, con studio di commercialista. La figura del padre è quasi solo intravista, un’ombra sofferente e disincantata, che ha fatto la campagna di Russia riuscendo a restare vivo. Un’ombra sopraffatta dal fantasma dell’amato fratello minore, morto combattendo eroicamente sul fronte italiano. Da questi due genitori così diversi, l’autore par aver ereditato, per parte paterna la difficoltà a esternare i propri sentimenti, dalla madre un’alternanza di rabbia e rassegnazione che sono i due sentimenti che gli ispira: volerle fare del male per mettere a tacere i suoi ragionamenti sempre autoreferenziali, o lasciarla inveire perché è inutile ribattere.

Il racconto procede addentrandosi nella psiche della signora Angela Izzo e il suo signor figlio, che è un signor scrittore, si adopera come un chirurgo che debba individuare il tumore per procedere, implacabile, alla resezione. Ecco lei sempre in scena ed ecco le domande tutte appese a modo di questioni tutte edipiche e perciò tragiche: che conseguenze ha su un bambino prima e poi sull’adolescente, il giovane e l’adulto che diventerà l’autore, una simile madre, una che ha sempre svilito le figlie, annientandole nella considerazione di sé? Una che ha introiettato e riproposto il modello madre-figlia di cui è stata vittima, trasformandosi poi in carnefice a sua volta, in una spirale di rancore che finisce per diventare uno schermo che ripara madre e tutta la propria prole da traumi ancora più gravi, se solo si squarciasse questo gioco di ruoli?

 

 

La partitura di Franchini vive e si nutre della Napoli dei suoi personaggi. Fanno da contorno ad Angela che gli ingredienti di quel quadro – nell’esistenza di ciascuno – li incarna tutti: il tirare a campare contro l’avversa vita, l’umorismo amaro, quindi la rabbia e l’invettiva e, infine, i sentimenti estremi. Come l’estremo sentimento di capovolgere l’amore di mammà in uno sciorinare di visceri dove l’estremo lembo di budello trascrive un ghigno: "Devono aspettare che muoia". Solo per lei che è mamma la canzone vola e questa spietata commedia presa dal vivo del vissuto – il fuoco tenuto a lungo dentro – è, più che un atto di amore, una richiesta di amore. Quella che il bambino di tanti anni fa non si è mai stancato di fare in un disperato tentativo di capire quale male di vivere in fondo esprima questa madre scriteriata. Ecco lei, ed ecco altre domande: "Chi le ha attaccato questo male? Suo padre morendo troppo presto? Sua madre vivendo troppo a lungo?". E l’interrogativo che Franchini si pone rimasto celato nelle pagine di questo libro, per pudore, per discrezione o forse solo per paura di scoperchiare un vuoto troppo grande, è solo uno: "E che n’è di me?". Un dolore sordo, un’occasione perduta, quell’harakiri di sempre: essere amati dalla propria madre, la Generatrice dell’assoluto terremoto chiamato vita svelato nei visceri, mostrati a noi tutti, lettori atterriti, sbalorditi. Ma rapiti.

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