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Cucina, ai fornelli c'è overdose: serve disintossicarsi

Costanza Cavalli
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Lo chef stellato Pietro Leemann lascerà Milano e andrà a 900 metri di quota, in Svizzera, a vivere da monaco krishnaita: «Faremo una vera e propria cucina dei templi», ha dichiarato. Il Guardian ha stilato le “16 rules of modern dining from dress-codes to dogs” (le sedici regole per la ristorazione moderna, dall’abbigliamento ai cani), dove viene svelato che se non ci sono sale e pepe a tavola non è poi così grave. I ristoranti milanesi sono sempre pieni, c’è da chiedersi che abbiano tutti incessantemente da festeggiare, ormai impossibile trovare un tavolo senza una prenotazione che risalga almeno a tre giorni prima e sono sempre di più i locali che chiedono un acconto, se annulli il tavolo perdi i soldi.

Nell’inserto del Corriere della Sera, Cook, scopriamo che i drink vanno “attualizzati” e il vino Rosé è “alla ricerca della propria identità”. In libreria c’è l’“Elogio del mangiare con le mani” del critico eno-gastronomico Allan Bay: “Un’opera che ci permette di riscoprire il piacere di trasgredire, di sporcarci, di dire sì alla vita”, è scritto in quarta di copertina (sic). I golosi sono diventati “foodie”, la reazione di Maillard un comandamento, l’alveolatura un’ingiunzione, il grembiule un feticcio, l’impiattamento un diktat.

Gli chef (ma quanti ce ne sono?) si esibiscono sulle navi da crociera come una volta gli illusionisti. Su TikTok si contano, sotto la tendenza “FoodTok”, 2,5 milioni di video-ricette, così rapidi che l’unico risultato è quello di farti venire il mal di mare (sul social colleziona milioni di visualizzazioni anche Haritsu, un vlogger indonesiano la cui attività è filmarsi mentre cucina e ingerisce cibo in decomposizione. Una prece).

 

 

 

SULLO SCHERMO
Nel film The Taste Of Things, miglior regia al Festival di Cannes lo scorso anno, una donna, all’alba, infila un piccolo coltello in tasca, va nell’orto, taglia un cespo di lattuga, lo lava, lo sbollenta nell’acqua salata, lo immerge in acqua e ghiaccio, lo strizza delicatamente, lo adagia in una padella con del burro chiarificato e lo fa brasare con un arrosto di vitello: l’intera scena dura più di trentacinque minuti. La serie Disney The Bear ha fatto vincere un Emmy a Jeremy Allen White: l’attore interpreta uno chef distrutto dal dolore che tenta di trasformare la paninoteca italiana del fratello suicida in un ristorante gourmet.

Non contenta, Disney ora ci propone Nothing, miniserie su un vecchio e insopportabile critico culinario di Buenos Aires che scopre quant’è buona la cucina semplice grazie alla nuova colf paraguaiana (hanno scomodato pure Robert De Niro e Luis Brandoni, attore e politico argentino con minor fortuna di Reagan e maggiore di Barbareschi); ma serie e film sul cibo sono ormai incalcolabili: Chef’s Table, Date da mangiare a Phil, Dinner Club, Drops of God, Boiling Point, Pasta Grannies, The Menu, 4 ristoranti, Cuci ne da incubo. “The hunger of food on screen”, la fame di ci bo sullo schermo, titolava due settimane fa il Financial Ti mes; mentre il New York Times dedicava un articolo al “brivido” teatrale che regalano le Steakhouse: l’apice della drammaticità? Rimandare indietro la bistecca. Riempita la bocca, colmi gli occhi, zeppe le orecchie: le proposte podcast per gli “appassionati di cibo” (appassionati?) sono decine: A Hot Dog Is a Sandwich, The Food Chain, The One Recipe, Lecker, Dinner Sos, Recipe Club.

 

 

 

COMPETIZIONI

La finale di MasterChef 13 è stata la più vista delle ultime quattro stagioni, una media di 1,2 milioni di spettatori (quando eravate tutti imprigionati in casa per il Covid davate fuori di matto per uscire, e ora state sul divano a guardare la colatura di ricci di mare?). Il programma, che negli Stati Uniti conta 24 milioni di spettatori unici a stagione, è intoccabile e ha pure una striscia quotidiana, Masterchef magazine: non bastano puntate che durano mezza giornata, ‘sto diavolo di trasmissione in cui dicono, testualmente, che la salsa «è la carta d’identità dello chef».

Ogni anno è sempre la stessa edizione: i concorrenti si disperano (ma quanto accidenti piangono?), parlano di duro lavoro, sogni nel cassetto e di quanto si matura a nasare zafferano per due mesi; fanno piatti che nessuno spettatore normale cucinerà mai (che è triste come un film porno: è sempre guardare qualcuno che fa qualcosa che vorremmo fare noi), con ingredienti che nessuno troverà mai (l’ideale per un pubblico medio, affamato di straordinario e terrorizzato dal raggiungibile). La sceneggiatura, infine, è di una sconfortante banalità retorica: «Masterchef è un viaggio», «Nel momento in cui pensi di dare del “tu” al coltello, ti tagli», «Dobbiamo avere rispetto per il tartufo». Fuori da MasterChef, se parli con una posata o ti inchini davanti a un tubero, ti portano via. Dentro MasterChef, sei un saggio. Viviamo in una società talmente impoverita, di soldi e di sogni (se non riesco a risparmiare tanto vale uscire tutte le sere, tranne quando c’è MasterChef), che l’unica cosa che può permettersi è mettere nel piatto la messa in scena (vedi poi la steakhouse del Nyt...): par el seco xe bona anca la tempesta, dicono i veneti. A spiegarci la “fenomenologia” di questo demi-monde, ci vorrebbe Umberto Eco.

 

 

 

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