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Il corteo femminista contro il patriarcato diventa una sfilata a favore di Hamas

Lucia Esposito
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Che cosa c'entra la lotta al patriarcato con il conflitto israele-palestinese e più in generale con la guerra? E che cosa c'entrano le legittime battaglie femminili come la richiesta di abolire il gender gap (secondo l'Osservatorio dell'Istat la differenza salariale tra uomini e donne nel settore privato nel 2022 ha raggiunto quasi 8mila euro l’anno) con quanto sta accadendo in Medio Oriente? Le femministe di Non una di meno, annunciando la loro manifestazione di domani, infilano tutto nel frullatore dei loro proclami, fanno un bel cocktail di politica e ideologia, mischiano antisionismo e odio pregiudiziale per Giorgia Meloni, il risultato è un cortocircuito logico che poi vedremo materializzarsi in tutta la sua insopportabile evidenza plastica nelle manifestazioni dell’otto marzo.

 


Scrivono slogan contro il governo di destra, spiegano che «l’irrigidimento del codice rosso è un’operazione che ripropone un approccio emergenziale e punitivo senza agire sullo scardinamento dei meccanismi che riproducono la società patricarcale», come se durante i governi precedenti quei meccanismi non fossero ben oliati, come se prima dell’insediamento della Meloni non ci fossero femminicidi, i vertici delle aziende fossero tutti al femminile e le donne avessero asili nidi gratuiti e aperti fino a sera, sussidi e sostegni familiari da poter tenere in meraviglioso equilibrio la vita privata e quella lavorativa. Insomma, le militanti di Non una di meno dimenticano che nell’era pre-Meloni le donne non vivevano nel paese delle meraviglie. Nel giorno in cui l’Istat annuncia che le modifiche al sistema di tasse e benefici introdotte nel 2023 hanno ridotto il rischio povertà di oltre un punto percentuale (è passato dal 20% al 18,8%) le femministe accusano il governo di «voler approfondire le diseguaglianze».

 


Ma il vero capolavoro di contraddizioni, incoerenze e illogicità che rasenta la follia arriva alla fine del manifesto di lotta quando, tra le mille sfumature e declinazioni di contrasto al maschilismo, si legge che «scioperare contro il patriarcato significa reclamare l’immediato cessate il fuoco su Gaza per fermare il genocidio, la fine dell’apartheid e dell’occupazione coloniale in Palestina». E ancora: «Rifiutiamo il pinkwashing (il neologismo inglese si riferisce alle strategie di marketing che sposano opportunisticamente la causa femminista, ndr) sostenuto da Israele che promuove la partecipazione di donne e persone queer nell’esercito come orizzonte ultimo dell’emancipazione, perché sappiamo che l’unico modo per promuovere una lotta transfemminista di liberazione collettiva è opporsi al progetto coloniale e genocida dell’oppressore sionista».

 


La guerra al patriarcato si combatte sventolando la bandiera palestinese, dimenticando completamente l’orrore del 7 ottobre derubricato a semplice «reazione palestinese dopo decenni di occupazione». Cancellato dalla memoria e dalla storia (o meglio, dalla storia riscritta da loro). Eppure, proprio due giorni fa l’Onu ha riconosciuto definitivamente che Hamas ha commesso crimini sessuali – stupri e stupri di gruppo - negli attacchi di ottobre. Le nostre femministe non hanno nessuna parola per le israeliane. Perché? Sono meno donne delle altre? Gli stupratori di Hamas non sono bestiali come gli altri? Al progetto «coloniale e genocida» di Israele, le militanti di Non una di meno preferiscono i terroristi di Hamas famosi in tutto il mondo per avere in grandissima considerazione la questione femminile. Nella striscia di Gaza lavora solo una donna su dieci e solo il 9% delle imprese è gestito da una donna, la disoccupazione femminile supera il 60%, le signore possono viaggiare solo con il consenso di un maschio che sia padre, fratello o marito e fino a poco tempo fa non potevano neanche guidare. Il 7 ottobre in Israele si è consumato un femminicidio di massa. E il silenzio delle nostre femministe che era già stato insostenibile durante la manifestazione dello scorso 25 novembre è ancora più colpevole nel giorno della festa della donna. Dovrebbero difendere i diritti di tutte e ricordarsi che le israeliane oltraggiate, seviziate, uccise sono - erano - donne. Ma il silenzio dei movimenti femministi su questi crimini rimbomba da cinque mesi. E così anche il corteo di domani sarà un’altra occasione perduta sull’altare di Hamas. 

 

 

 

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