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L'intolleranza uccide il confronto e il sapere

Corrado Ocone
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Professori che strizzano gli occhi ai “compagni che sbagliavano” delle Brigate Rosse, altri che vengono censurati per aver messo sui social dei post ritenuti “inopportuni”, giovani contestatori che impediscono di intervenire in dibattiti a persone a loro sgradite. Ce n’è abbastanza, nella cronaca di questi giorni, per allarmarsi sullo stato di salute delle nostre istituzioni formative. L’impressione è che, sopraffatti da test Invalsi e valutazioni Anvur, si stia dimenticando il fine principale del processo educativo in un sistema democratico: esaltare, per la formazione del singolo, quel “conflitto delle opinioni” da cui solamente può nascere una “verità” condivisa, seppur parziale e imperfetta come tutte le cose umane.

La libertà di espressione non è da considerarsi un optional, e nemmeno semplicemente un diritto individuale. Essa è, più radicalmente, l’essenza ed il pilastro sia della cultura sia della libertà occidentali. Le Università nacquero, in piena età medievale, proprio come uno “spazio libero” in cui, attraverso la dialettica e le desputationes, si potessero affrontare senza censure tutte le questioni, persino quelle (allora molto sentite), relative all’esistenza di Dio. È solo dall’argomentazione e dal confronto con le opinioni diverse, infatti, che io posso rivedere in tutto o in parte le mie idee, raggiungendo una nuova e più matura consapevolezza; o posso rinforzarle, se trovo inconsistenti le obiezioni apportatemi.

 

 

 

IL SALE DELLA CIVILTÀ

Considerate le cose da questa prospettiva, mi sembra evidente che nelle nostre istituzioni formative non ci sia oggi adeguato spazio a che questo “momento socratico”, che è stato il sale della nostra civiltà, possa prosperare e svilupparsi. Manca la volontà, o forse anche la consapevolezza, di buona parte degli attori impegnati. Un filo rosso collega episodi pur diversissimi come quelli di questi giorni: l’intolleranza al dissenso. Detto altrimenti, affiora forte da ogni parte la volontà di espungere le idee difformi dal dibattito, mettendo loro il bavaglio o usando addirittura la violenza. C’è una recondita “solidarietà” fra le idee professate e insegnate dai docenti e quelle, sicuramente più violente, che muovono i contestatori dei cosiddetti “collettivi”. La generale simpatia per gli aguzzini di Hamas ne è tragica testimonianza. Il che spiega anche come i contestatori siano spesso giustificati dai loro professori, che non esitano a scendere in loro difesa definendo “libertà di dissenso” quella che è semplicemente una sopraffazione.

Una domanda sorge allora spontanea: ai membri dei collettivi qualcuno avrà fatto capire, nelle ore di lezione, il valore del pluralismo, del confronto dialettico, della pari dignità che ha ogni opinione nel diritto di essere sottoposta al dibattito argomentato? Qualcuno fra i docenti si sarà posto il problema di far sviluppare nei giovani lo spirito critico, di non dare loro una verità preconfezionata? Non dobbiamo dimenticare che la più parte dei docenti oggi in cattedra si sono formati nel milieu culturale creatosi nel “lungo Sessantotto italiano”, il che non è irrilevante per il nostro discorso.

 

 

 

SEMPRE DALLA PARTE GIUSTA

Pur nelle evoluzioni che ha avuto nel tempo il loro pensiero (non quello di tutti in verità), una costante è infatti rimasta in loro: la convinzione di essere dalla parte giusta della storia a prescindere, di essere i sacerdoti di una verità assoluta che non può ammettere dubbi o perplessità da parte di nessuno. È una forma di immunizzazione rispetto al diverso che è lontana da ogni mentalità liberale. Ed il paradosso è che essa si esplica proprio in nome dei valori della “diversità” e dell’“inclusività” (che spesso vengono sanciti anche dai programmi ministeriali e trovano espressione nei testi scolastici).

Poiché la cultura, libera per definizione, vive proprio della dialettica che oggi si mette in discussione, il risultato finale non può che essere un decadimento generale della mente umana, una sua “chiusura” (per parfrasare il titolo di un noto libro di Allan Bloom). Qualcuno obietterà che ciò non è vero perché mai come nei nostri tempi l’umanità ha raggiunto traguardi di conoscenza prima inimmaginabili. E qualcun altro aggiungerà che, per stare al loro passo, le scuole e le università devono concentrarsi sullo sviluppo delle competenze tecniche, casomai favorendo le cosiddette discipline Stem rispetto a quelle umanistiche. Un modo di ragionare che, da una parte, confonde l’istruzione con l’educazione; e, dall’altra, proprio perché sottovaluta nel suo vero significato l’educazione, finisce per affidarla al “ricettario” già pronto all’uso predisposto dalla dominante e intollerante cultura woke. Le domande da porsi e che attendono risposta sono invece altre. Ad esempio: A che serve la “scienza dei mezzi” se non viene coltivata quella “dei fini”? E che ne sarà della nostra civiltà se qualcuno ha già stabilito per noi quali siano i fini “giusti”, “corretti” e perciò ammessi?

 

 

 

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