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L'Anpi compie 80 anni e li porta pure male: sembra sempre più un partito

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Anpi

Marco Patricelli
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Nata dalla storia, cresciuta nella memoria e pasciuta dalla politica. L’Associazione nazionale partigiani d’Italia taglia il nastro degli ottanta anni di vita, ma di partigiani in vita ne sono rimasti talmente pochi che secondo molti non sarebbero più del 3% degli iscritti. E chi sono, o sarebbero, gli altri che costituiscono la massa critica del 97%? Di tutto e di più: non ex veterani della guerra di liberazione falcidiati dall’anagrafe ma vegete retrovie di partito in cerca di una seconda giovinezza, giovani autopromossi partigiani sul campo del tesseramento, militanti di sinistra che fanno politica dietro e con lo scudo dell’ente morale risalente al 5 aprile 1945. Basta indossare un fazzoletto tricolore con stella rossa e la scritta Anpi per essere promossi ex cathedra esperti di storia, navigati legulei in materia costituzionale, ferrei guardiani della narrazione corretta (ovvero l’unica consentita) delle vicende della seconda guerra e dell’interpretazione inflessibile della contemporaneità, e distribuzione di patenti di antifascismo certificate. La resistenza ora e sempre, sempre e comunque, comunque sia.

Ottanta anni sembrano essere passati invano, impermeabili ai cambiamenti del mondo, sotto uno spesso strato di cerone ideologico che nasconde le rughe ma non le cancella, e qualche sbuffo di cipria rossa per confondere i contorni di un’autoinvestitura che non esiste nella forma e nella sostanza. E neppure nello spirito. I partigiani che la guerra l’avevano fatta o che nella moltiplicazione del 26 aprile 1945 avevano pensato di averla fatta conquistando il diritto di sfoggiare il Diploma Alexander in salotto, già dal 1947 avevano diviso le proprie strade incrinando il monolite che trovava la sua giustificazione nell’opposizione ai tedeschi prima e ai nazifascisti poi, e nella rinascita dei partiti che ci avevano messo il cappello col Comitato di liberazione nazionale e il braccio armato del Corpo volontari della libertà.

Le prime frizioni, a tre anni dalla fondazione avvenuta il 6 giugno 1944 in concomitanza con lo sbarco in Normandia, sempre a Roma: dall’associazione se ne vanno nel 1948 le formazioni cattoliche e quelle militari autonome che si costituiscono in Federazione italiana volontari della libertà; nel 1949 è la volta di Giustizia e libertà (Partito d’azione) con la nascita della Federazione italiana delle associazioni partigiane. Sfogliando il carciofo partitico, resta il cuore comunista, e non sorprende perché le scissioni erano dovute proprio all’appiattimento filosovietico, ovvero stalinista, non propriamente un modello di libertà e democrazia.

I partigiani rossi, peraltro, nel novembre 1947 avevano tirato fuori le armi che avrebbero dovuto riconsegnare nel 1945, occupando militarmente la prefettura di Milano. A un Giancarlo Pajetta che euforicamente comunicava al telefono la “conquista rivoluzionaria”, Palmiro Togliatti che non mancava di realismo rispose gelido. L’esercito circondò i partigiani che circondavano la prefettura, si chiuse un occhio anzi due e finì tutto a tarallucci e vino. Il lodevole proposito di tramandare la memoria della Resistenza e il suo contributo alla liberazione sfociava intanto nella narrazione apocrifa dell’Italia liberata dai partigiani, sul mito di «Bella Ciao», altra invenzione agiografica perché mai cantata dai partigiani.

Ma la vera svolta, col capolavoro dell’ente morale che pensa e agisce come un partito di inossidabile schieramento a sinistra, avviene nel 2006 con l’apertura dell’iscrizione a tutti i maggiorenni che si professano antifascisti, replica del miracolo di moltiplicazione delle brigate del 26 aprile 1945. E vai con il tesseramento a pioggia (un cartoncino Anpi non si nega a nessuno), i contributi pubblici di fonte ministeriale, il 5 per mille e il sostegno di artisti e intellettuali riconosciuti e sedicenti; soprattutto questi ultimi, ben lieti di vedersi riconoscere un ruolo e farsi ospitare a manifestazioni e mettere le firme sui manifesti. È un circuito “antifà” che “bene fa”: per farsi conoscere e applaudire, invitare e incensare. Chiedersi che senso abbia oggil’Anpi non è esercizio di stile né speculazione intellettuale, tipo la memoria dei legionari romani e delle camicie rosse garibaldine che da tempo appartengono alla storia. I partigiani del XXI secolo sembrano più orientati alla fantascienza e alla fantapolitica. Come se ottanta anni non fossero mai passati, e come se il passato fosse sempre presente. Nei desideri più che nella realtà, poco importa.

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