Via Medina e Vergarolla: quel fragoroso silenzio sulle stragi del ‘46
Le uniche voci che si sono levate in ricordo degli oltre ottanta morti e più di duecento feriti della strage di Vergarolla (18 agosto 1946) sono state quelle del Ministro Sangiuliano e della Senatrice Rojc del Partito Democratico.
Sulla strage di Vergarolla è infatti calato il fragoroso silenzio del mainstream e delle Istituzioni Eppure, fu uno dei tre sanguinosi eventi con cui si aprì l’era repubblicana, insieme ai fatti di via Medina a Napoli e a Portella della Ginestra.
Napoli, Pola, Sicilia: località molto distanti fra loro ma accumunate dall’odio politico che ha lasciato sul terreno centinaia di vittime. Tuttavia, il ricordo che se ne conserva è diverso: per Portella la sensibilità è infatti ampia e trasversale, mentre Napoli e Pola sono pressoché dimenticate.
Perché? E’ difficile dare una risposta. Certamente, la già corta memoria del nostro Paese insieme e decenni di mancato approfondimento scolastico hanno impedito di preservarne il ricordo civico. Vi è poi il fattore ideologico: sui morti di Napoli e di Vergarolla è sempre calato il sospetto di essere strumento delle forze conservatrici e di destra contro il monolite della Resistenza. Ma davvero si può pensare che, cper custodire il sacrificio degli antifascisti, sia necessario cancellare pagine dolorose di storia patria?
A Napoli caddero nove ragazzi ed una ragazza fra il 7 e l’11 giugno. Tutti monarchici in una città che aveva votato compattamente a favore della Corona sabauda al referendum del 2 giugno 1946. Il ristretto scarto di voti che permise la vittoria repubblicana, la convinzione che vi fossero stati brogli elettorali ed un primo morto causato da una bomba carta portò diversi napoletani a manifestare in piazza. La reazione degli ausiliari di polizia del Ministro Romita (molti dei quali ex partigiani del nord Italia) fu particolarmente dura, con colpi d’arma da fuoco sparati contro i dimostranti. A riportare relativa calma fu l’Arma dei Carabinieri, intervenuta per sedare gli scontri in giorni in cui alcuni quotidiani di sinistra accusavano i carabinieri di essere filo-sabaudi.
Un clima pesante e teso, dunque, che raggiunse il climax con la protesta l’11 giugno quando una folla di simpatizzanti monarchici si radunò in via Medina nei pressi della sede del Pci. I manifestanti erano allarmati dal fatto che i comunisti avessero esposto il Tricolore senza il blasone dei Savoia. Una provocazione (o presunta tale) che fece scoppiare nuovi tafferugli nel corso dei quali nove monarchici furono uccisi, compresa Ida Cavalieri, diciannovenne investita da una blindo della polizia mentre era avvolta nel Tricolore con lo stemma sabaudo.
Per gli Italiani che ancora vivevano a Pola, allora parte della Zona A sotto controllo anglo-americano, ciò che stava accadendo in Italia era importante ma non destava grandi preoccupazioni. Il fatto che Pola fosse amministrata dagli Alleati, invece che dall’Esercito popolare di liberazione di Tito, suscitava infatti una certa serenità.
Tutto s’interruppe il giorno 18 del mese di agosto 1946 quando un deposito di mine disinnescate esplose investendo i partecipanti ed il pubblico di una gara natatoria in località Vergarolla. L’esplosione uccise oltre ottanta persone, ferendone duecento. Una “Bologna polesana”, una Bologna ante litteram: per l’elevato numero di morti e di feriti e per l’aurea di mistero calata su entrambi gli episodi. Perché tanti morti? E, soprattutto, chi è stato? Se per Bologna i responsabili sono i terroristi neri (forse spalleggiati da elementi di apparati deviati dello stato), per Vergarolla i sospetti più forti caddero sull’ Uprava državne bezbednosti/sigurnosti/varnosti (UDBA) il servizio segreto jugoslavo. Non che vi fosse nulla di strano poiché l’UDBA, durante tutta la sua storia, si rese responsabile di centinaia di eliminazioni di oppositori all’estero e della repressione di elementi anti comunisti in patria. E a Vergarolla di aver riattivato le mine marine che, scoppiando, causarono l'ecatombe.
Lo scopo strage quello di rivendicare la sovranità jugoslava su Pola, esortando gli ultimi italiani ad abbandonare la città. Foibe, Esodo, Vergarolla ebbero in fondo un unico fine: rimarcare che nel nuovo ordine jugoslavo non c’era spazio per qualunque etnia ostacolasse il disegno di Tito.
Tuttavia, se per Bologna vi furono lunghe indagini e processi, per Vergarolla tutto si esaurì con il definitivo passaggio dell’Istria alla Repubblica Socialista Federale di Yugoslavia. Solo il lavoro di storici e le testimonianze dei sopravvissuti hanno permesso alla “Bologna polesana” di non cadere nell’oblio.
A distanza di quasi ottant’anni, la memoria della “Bologna polesana” è ancora sconosciuta sia agli italiani sia, a questo punto, alle stesse Istituzioni che neanche si sono ricordate della ricorrenza. Tutte le Istituzioni, dalle Camere al Colle.
Avremmo atteso dal Governo tutto, dalle opposizioni e dal Capo dello Stato la medesima attenzione riservata a Bologna, a Marcinelle e all’Italicus perché, quei morti, furono tutti italiani. Da Pola al Belgio, sino al cuore dell’Emilia, morirono italiani.
Destra, sinistra, centro: un italiano è un italiano. Punto. E la matrice ideologico di un attentato terroristico dice poco: nel momento in cui colpisce persone inermi ed innocenti va condannata tout court. Che sia neo-fascista, che sia comunista.