OPINIONE

Siamo nel mirino: non ci controllano, vogliono eliminarci

sabato 23 agosto 2025
Siamo nel mirino: non ci controllano, vogliono eliminarci

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Avrei fatto volentieri a meno di scrivere questo pezzo, ma devo tornare su un argomento che riguarda il nostro lavoro, il giornalismo. L’altro ieri sono arrivate, ancora una volta, minacce a Libero e al Tempo, all’editore Giampaolo Angelucci e al suo stretto collaboratore Andrea Pasini.

Il fatto, telegrafico: una lettera spedita al Tempo, minacce di morte, foto allegate di un incontro a tavola tra Cerno, Pasini e Osvaldo De Paolini (vicedirettore del Giornale), firma anarchica, indagini in corso, brutto clima. Daniele Capezzone e Tommaso Cerno sono miei amici, due eccezionali polemisti; con Osvaldo De Paolini ci siamo incontrati trent’anni fa in redazione al Giornale; Giampaolo Angelucci lo conosco da vent’anni, io passavo da un quotidiano all’altro e lui mi diceva «Allora, quando vieni?». Zappo la vigna dell’editoria da quando il papà di noi tutti, Vittorio Feltri, quasi 35 anni fa, mi battezzò nella chiesa sconsacrata dell’Indipendente, sono passati tante primavere e giornali, fin troppe città e una moltitudine di taccuini pieni di appunti, mai come oggi ho sentito un clima così barbaro nei confronti dei giornalisti (e degli editori) non allineati alla sinistra, neppure quando al governo c’era Silvio Berlusconi, a cui i compagni non hanno mai risparmiato nulla, né come editore né come leader politico.

Questo odio si esprime in varie forme, tutte hanno il tratto comune dell’intolleranza e ormai sfociano nell’escalation contro la persona, senza limiti. Non è esercizio della libertà di critica, l’espressione del dissenso (che noi qui incoraggiamo e coltiviamo), è desiderio di prevaricare, annullare, cancellare con ogni mezzo, si parte dalle idee e si arriva all’esplicito programma dell’eliminazione fisica. Mi sono interrogato spesso su questa deriva diversa dal passato perché en plein air, non clandestina e dunque in un certo senso «autorizzata» dalla degenerazione sistema - e sono giunto a una conclusione: il problema numero uno (in tutto l’Occidente) è la bancarotta culturale delle sinistre, il fallimento del progressismo, la rotta estremista dei movimenti antagonisti, la loro uscita dal binario istituzionale e entrata a tutta velocità nel tunnel del movimentismo senza guida. Il trauma, in Italia, è stato la netta vittoria della destra alle elezioni politiche del 2022 e l’arrivo a Palazzo Chigi di Giorgia Meloni, prima donna premier, uno shock. Da quel momento gli argomenti e i toni dell’opposizione sono andati in cortocircuito perché è apparso chiaro il fallimento del progressismo, è calato il sipario su un’epoca, mentre dall’altra parte il centrodestra è riuscito a rinnovarsi, trovare un’altra leadership dopo il trentennio del Cavaliere e proporre un suo modello di governo che oggi viene guardato con interesse all’estero (la rassegna stampa è voluminosa, segnalo un pezzo del settimanale britannico Spectator del 19 agosto intitolato «The joy of Giorgia Meloni»).

Il giornalismo conservatore è finito nel mirino, primo bersaglio dei colpi di cannone degli opinionisti à la page, le tattiche di combattimento sono diventate sempre più estreme (siamo diventati tutti «fascisti», anche quelli che non sono mai stati di destra, davvero strabiliante), fino al tentativo di marginalizzazione. Così in tv si pratica la formula del 3 contro 1 nei talk show (dove l’uno è quello tra i “destri” che viene catapultato nel Vietnam televisivo) ma, non essendo sufficiente il pestaggio per soprannumero, si è apparecchiato anche il dibattito monocorde, tutti che in studio si danno ragione (sempre a sinistra) e dall’altra parte hanno tolto la sedia.

Gli apparati di potere del sistema mediatico, forgiati in decenni di dominio del mezzo che è il messaggio (Marshall McLuhan docet), si sono chiusi come una testuggine romana. È tanto vero che il “telemelonismo” della Rai è rimasto un’invenzione dei giornali della sinistra, nella tv pubblica oggi non c’è un solo programma di approfondimento politico che si possa definire conservatore e sia condotto da un giornalista con un robusto bagaglio di esperienza, tale da poter reggere all’onda d’urto progressista. A questo isolamento (che si pratica con sottigliezza, è velato, visibile solo a chi conosce i meccanismi di organizzazione e distribuzione dei media, ci vuole mestiere) è corrisposto un assalto all’arma bianca contro i pochi giornalisti che argomentano e sanno rispondere al “barrage” delle sinistre.
Il giochino della «sparizione» delle opinioni della destra è andato fuori controllo perché il piano di character assassination dei commentatori conservatori è passato con violenza moltiplicata sui social media, qui vige la legge della giungla, è un medioevo digitale in cui il degrado umano è abissale, la minaccia la regola, la fake news un fucile d’assalto con cui si fa strage della verità e delle persone.

Se noi siamo «fascisti», bisogna appendere a testa in giù il fascista, chiaro. E prima o poi trovi la testa calda che lo fa, quello che viene sotto alla redazione a darti una sventagliata di «servo» di qualcuno (Israele, il fascismo, l’America, il capitalismo), fino a quando non ti ritrovi con un blindato dell’Esercito all’ingresso del giornale perché non sei più al sicuro, esattamente quello che è successo a Libero. L’editore dei «fascisti» ovviamente fa la stessa fine, trattamento speciale, manganello mediatico, e a nessuno viene in mente che se la famiglia Angelucci non avesse questa passione per i quotidiani, i giornalisti non allineati oggi avrebbero uno spazio del tutto irrilevante nel dibattito pubblico, talmente misero da non essere visibile. Noi siamo un’eccezione, non la regola che sta tutta da un’altra parte, sempre la stessa.

È uno Squid Game inventato dagli intellettuali con la penna rossa, una ghigliottina inesorabile, perfezionata durante il cosiddetto “telemelonismo” che nella Rai non esiste né in tv e men che meno sulla radio. Se ci sei - quando ci sei - è perché devi fare la foglia di fico, dare una parvenza di pluralismo a una battaglia sempre impari. Non è conformismo, è una nuova forma di leninismo. Così arrivano i comunisti, quelli che ti augurano la morte perché sei complice di Netanyahu e certamente sei pure ebreo, gli anarchici con la foto dei tuoi pranzi e un augurio per un appuntamento rapido con il Creatore.
Tommaso Cerno e Daniele Capezzone sono tra i bersagli prediletti di questo tiro con l’arco in pieno giorno perché non hanno timori reverenziali, sono per fortuna privi di complessi d’inferiorità, rivendicano le proprie idee, non praticano lo sport del «ma-anchismo», hanno opinioni forti e le sostengono. Non a caso Alessandro Sallusti ha scritto un libro intitolato L’eresia liberale, è la testimonianza di una corsa che comincia sempre in salita: non sei di sinistra? Niente borraccia d’acqua, parti due ore dopo, la tua bicicletta pesa il triplo e se per caso arrivi allo sprint, ci pensa il gruppone a mandarti fuori strada e se nella volata sopravvivi, può spuntare un cecchino. Nessuna paura, solo una grande fatica e la soddisfazione di non lasciare il campo agli squadristi del luogocomunismo.