Nel 1982, durante il processo Moro, la brigatista Emilia Libera confessò che i compagni che volevano fare il salto nella lotta armata si esercitavano mettendo nel mirino i missini. Per quelli di destra non era una novità: il primo delitto delle Br avvenne a Padova, dentro la sede del Msi, e costò la vita a Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola. Era il 1973. Due anni dopo, il 29 ottobre del 1975, un agguato brigatista ferisce a morte uno dei più giovani caduti della destra, Mario Zicchieri detto Cremino, di soli sedici anni, freddato davanti alla sede della Fiamma in via Gattamelata, nel quartiere popolare del Prenestino a Roma.
Con lui fu ferito gravemente Marco Luchetti, altro giovanissimo militante missino. L’inchiesta fu archiviata (come sempre per le morti dei neri). Finché la Libera non lanciò la sua accusa: «Fu Seghetti a dirmi, durante un addestramento in Abruzzo, che a uccidere Zicchieri erano stati lui, Pecos (Valerio Morucci, ndr) e Germano Maccari».
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La sinistra va all’attacco dei “santuari neri”. Oddio, vi chiederete, e adesso cosa diavolo sono quest...Niente da fare, i tre brigatisti vengono processati e assolti per insufficienza di prove. Nonostante lo sdegno dei familiari di Cremino, del Msi, del cronista del Secolo Francesco Storace che seguiva il processo. Intanto Morucci negava ogni coinvolgimento e scriveva libri: «Li cercavamo, i fascisti, ma acchiapparli a uno a uno non era un’impresa facile. Facevamo qualcosa, ma nulla in confronto a quello che avremmo voluto...».
Oggi a 50 anni dall’omicidio Zicchieri resta un ricordo commosso nella comunità della destra che si accompagna alla condanna senza se e senza ma dell’antifascismo militante. E nella memoria collettiva della nazione cosa resta? Nulla. Questi morti sono ombre scomode, lasciate all’omaggio di riti comunitari che però non bastano, non sono sufficienti. Mario Zicchieri, famiglia proletaria, un ragazzino come tanti, non un violento, non un teppista.
Andava in chiesa, faceva il baby sitter per i cuginetti. E le domande che il caso Zicchieri si porta dietro meriterebbero risposte. Perché quella raffica di assoluzioni per i tre del commando? Luca Telese nel suo libro “Cuori neri” azzarda una risposta: in quei giorni del 1987 Morucci è l’unico brigatista che può ricostruire uno dei dettagli cruciali del rapimento Moro e cioè come fu organizzata la fuga dei brigatisti. Una risposta dunque troppo importante per perdere tempo con l’omicidio di un sedicenne missino. E poi ci sono le motivazioni sottolineate dagli avvocati della famiglia Zicchieri: Morucci, dichiarandosi estraneo al delitto di via Gattamelata, ha evitato una sicura condanna e grazie alla legge sui dissociati ha potuto tornare in libertà evitando un vertiginoso cumulo di pene.
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