La Br Banelli ai domiciliari
"È mamma, si è purificata"
La compagna So è mamma. E avere avuto un figlio per lei è stato un vero toccasana: ora può starsene a casa, che abbia ucciso o meno. Lo dicono i giudici della Corte d'Assise di Appello di Bologna. La maternità, per loro, ha operato «anche in senso catartico rispetto alla brutalità degli omicidi commessi negli anni precedenti». E questo «giustifica la scelta anche sul piano umano, oltre che giudiziario» di farla uscire di galera, fuori da Sollicciano. Mamma So s'è pentita, ha detto la sua versione, ha fatto Filippo, e ora potrà tornare nella villetta a due piani lungo la strada che divide il piccolo centro di Vecchiano, alle porte di Pisa. Il percorso dissociativo di Cinzia Banelli - sottolineano i giudici bolognesi - «ha attraversato tappe progressive che la avevano già prima dell'arresto portata ad un distacco dal sodalizio (tanto da essere processata dai correi) ed è poi culminato nel definitivo distacco precipuamente a cagione della gravidanza e della maternità che, in particolare, costituisce un validissimo e credibile movente per la scelta collaborativa». Le altre madri dietro le sbarre staranno rosicando, ma a vuoto: l'effetto figlio-catarsi è solo per l'ex Br. L'omicidio D'Antona- La Banelli era una che aveva un nome di battaglia: Sonia. Una mattina di maggio del 1999, prese un treno per Roma, andò in via Salaria e partecipò all'assassinio di Massimo D'Antona, la prima vittima delle nuove Br. «Durante il viaggio d'andata pensavo solo a ciò che avrei dovuto fare nell'azione -ha raccontato poi l'ex brigatista- ripetevo le frasi da dire via radio, come dovevo muovermi. C'era una preparazione meticolosa e militare, senza il tempo per altri pensieri. Ero convinta di andare a compiere un'operazione politica, non un omicidio». Massimo D'Antona, consulente del ministro del Lavoro Bassolino, morì il 20 maggio '99, ammazzato da sei colpi di pistola. «Dopo il delitto mi sono allontanata secondo il programma prestabilito. Sul treno del ritorno a casa il peso e la responsabilità di ciò che avevamo appena fatto si fecero sentire. Io avevo votato per l'eliminazione dell'obiettivo, pur senza aver sparato avevo portato il mio compagno Mario Galesi a farlo. Ebbi la sensazione di aver provocato qualcosa che cambiava non solo la vita di altre persone, ma pure la mia. Per sempre». Tenere la fiaccola accesa- La Banelli non è una Br per caso: si è avvicinata alla lotta armata negli anni Ottanta, a Grosseto. «Avevo già 26 anni e cominciai a frequentare ambienti e discorsi di un certo tipo. Tutto ancora nell'ambito della legalità, con toni estremisti ma mai violenti. Io non sono mai stata attratta dalla violenza diffusa né la violenza diffusa c'entra con la lotta armata». In quegli ambienti cominciarono a circolare gli scritti dei «prigionieri politici» delle Br, gli irriducibili chiusi in carcere. «Dalla lettura di quei testi s'avviò un dibattito che poi è proseguito in ambito più ristretto». Da lì nacquero i Nuclei comunisti combattenti, poi divenuti Brigate rosse con l'omicidio D'Antona. «Noi abbiamo ripreso il discorso là dove s'era interrotto, nel 1988 con l'omicidio Ruffilli, quando già quel contesto non c'era più -dice la Banelli-. Conta la strategia, che si fa testimonianza: la volontà di tenere accesa una fiaccola, di dire che c'è ancora spazio per un'opposizione combattente anche se non arriverà alla vittoria. Io non ho mai pensato di fare la rivoluzione, ma di riproporre il patrimonio politico-teorico delle Br, la strategia della lotta armata a prescindere di una lotta di classe diffusa». Il delitto Biagi - Poi la compagna So partecipò anche alla pianificazione dell'omicidio Biagi. Fu «deciso in un'ultima riunione in un American bar di viale dei Mille a Firenze, con i tavolini all'interno». La sera del 19 marzo 2002 Biagi fu ucciso sotto casa, Cinzia Banelli faceva parte del commando e aveva il problema di non far sorgere sospetti nei suoi familiari: «Era la festa del papà e in quell'occasione telefonavo sempre a mio padre. Lo feci anche quel giorno, da Porretta Terme, altrimenti si sarebbe chiesto come mai non gli avevo fatto gli auguri. Poi pensai che stavo uccidendo un padre... Ti senti un verme, ma l'idea che lo fai per un fine che consideri più alto ti porta a superare anche questo... Purtroppo è così. Solo al di fuori del progetto brigatista la vita umana riacquista il suo valore». Il pentimento- Alle mogli di Marco Biagi e Massimo D'Antona, Cinzia Banelli ha scritto due lettere. Le due vedove non hanno gradito. «Per quanto poco possano valere, io ritenevo dovute quelle scuse e non intendevo farle diventare pubbliche. Ovviamente loro hanno tutto il diritto di rifiutarle e non ho alcun titolo per invadere ancora la loro vita. Purtroppo non posso ripagare nulla». S'è pentita, la So, soprattitto per il suo bambino: «Mi terrorizzava l'idea di dover dire a mio figlio che l'avevo abbandonato per coerenza e fedeltà a un'idea nella quale non credevo neanche più, che apparteneva a pochi e che seminava morte. Capisco che questi sentimenti possano sembrare un retaggio borghese, ma io li trovo solo profondamente umani e mi basta». Nel 2006 la Banelli è stata condannata a 12 anni dalla seconda Corte di Assise d'Appello di Roma, pena ulteriormente ridotta a 10 anni e 5 mesi dalla Cassazione nel 2008 le è stata riconosciuta l'attenuante speciale per i collaboratori di giustizia. Ha scontato oltre un quarto della pena. Sia la decisione del ministero dell'Interno di concederle il programma di protezione due anni fa (all'epoca del governo Prodi, sottosegretario Marco Minniti) sia quella giudiziaria conclusasi oggi con la concessione dei domiciliari, chiudono una vicenda che andava avanti da anni. Per due volte, con il governo di centrodestra, la richiesta del programma di protezione avanzata dalle Procure di Roma e Bologna era stata respinta. Albina Perri