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Franco Tatò: "Quando mi chiesero di tagliare 20 dipendenti"

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'Kaiser Franz' racconta: "In Germania operai e 'padroni' hanno obiettivi comuni. E non c'è l'articolo 18"

domenico d'alessandro
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Sua allieva fu Marina Berlusconi. Il padre Silvio, prima di scendere in politica, avrebbe detto di lui, all'epoca in Fininvest dopo un periodo a Mondadori: “Quando Franco mi guarda mi sento un costo da abbattere”. Di cognome fa Tatò, il soprannome - Kaiser Franz – se l'è guadagnato in Germania, dove arrivò già con la fama di tagliatore di teste. Oggi è amministratore delegato dell'Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, ma il curriculum avrebbe bisogno di un'intera pagina. Basti ricordare che se è nell'italiana Olivetti che ha mosso i primi passi, nella lunga carriera di Francesco Tatò la Germania ha svolto un ruolo fondamentale. E ancora oggi, se gli si chiede di descriverne il modello, sembra di sentire nella sua inflessione senza incertezze una sorta di nostalgia. Come quando l'uomo delle missioni impossibili racconta un episodio «che non dimenticherò mai». «In una delle aziende per cui ho lavorato a un certo punto si presentò un problema di conti, era necessario ridurre il personale. In Germania si concorda il numero di persone da licenziare, si negoziano le condizioni, ma la scelta delle persone che lasciano l'azienda non avviene in base all'anzianità, come può accadere in Italia, ma viene fatta dal sindacato. Il comitato d'impresa si assume quindi la responsabilità di scegliere chi deve lasciare. Ebbene, io avevo concordato licenziamenti per 120 unità, un 10% circa del personale. Il presidente del comitato d'impresa chiese però un giorno di vedermi. In quell'incontro mi propose di assumere – contrariamente a quanto avevo ipotizzato –  i 20 bravi apprendisti che terminavano in quel momento il loro percorso in azienda, e di licenziarne 140 al posto di 120. Mi disse: “Perché  questi giovani sono il nostro futuro”. Non lo dimenticherò mai. Ecco, questo riassume il modello tedesco, e spiega anche perché l'economia vada bene, perché si impegnino e realizzino nel lavoro, perché producano alta qualità. È questa la forza della Germania». L'Italia può davvero aspirare a importare un po' di questa forza? «Se è un modello importabile? No, non credo proprio. Ci manca un apprendistato alla tedesca, per dirne una. Là è previsto che i giovani che non vogliano proseguire gli studi dopo le scuole medie inferiori possano per tre anni lavorare in azienda studiando, con una remunerazione modesta. Devono studiare, badi bene, e se non ottengono certi risultati vengono cacciati. Ogni azienda quindi al termine di questi tre anni è libera di assumere o meno questi apprendisti, in base non solo al merito ma anche alla necessità». Basta modificare le modalità di accesso al lavoro dei giovani, quindi? «Neanche per idea. In Italia manca la condivisione dei valori dell'impresa, il rispetto per cui sia possibile condividere i numeri più riservati in totale trasparenza» Cambiare mentalità, allora? «No, guardi, il cambiamento culturale è il cambiamento più difficile, il più lento storicamente. La flessibilità del lavoro, ecco quel che può cambiare le cose. L'articolo 18 ha creato un grosso equivoco, perché se la protezione del lavoro dipendente è un diritto, perché gli stessi diritti non dovrebbero poter essere applicati a ogni cittadino? Ai 15 professionisti delle piccole imprese, ai manager? Quello che non va dell'articolo 18 è l'interpretazione data dalla giurisprudenza, è un problema di applicazione. Non licenziabile se non per giusta causa? Ma certo, sottoscrivo anche io. Ma quali sono le giuste cause? Se un'azienda è in fallimento licenziare il personale è una giusta causa, ma se il tribunale dice “no” sono costretto a chiudere l'impresa. Ovviamente l'allontanamento deve avere una giusta compensazione, ma bisognerebbe poter considerare anche l'impegno del dipendente. Cambiare l'articolo 18 è quindi il primo passo». Quali sono le altre armi tedesche? «Quello che viene definito il “modello renano” è un modello dalle articolazioni variegate, che ha però una filosofia costante. Vi è un forte aziendalismo e un forte localismo. In Germania esistono sì i contratti nazionali, ma vengono negoziati territorialmente negli stati federali. Il primo che chiude il contratto, naturalmente, fa da apripista per gli altri. Un ruolo importante è giocato poi dalla trattativa aziendale, che avviene in aziende caratterizzate da un sistema che in Italia chiameremmo “duale”, ma che è in realtà completamente diverso dal nostro. Il comitato esecutivo in azienda è composto dai dipendenti delle aziende, non dagli amministratori. Il consiglio di sorveglianza riassume invece molte funzioni di quello che in Italia è il collegio sindacale. Ha responsabilità di sorveglianza, monitoraggio e nomina del comitato esecutivo. E a sua volta è nominato dal sindacato e dagli azionisti. Il presidente del consiglio di sorveglianza, infine, è nominato dalla parte datoriale, dall'azionariato e ha voto doppio». Questione di “chi nomina chi”, quindi? «È la struttura stessa del sistema a definire la differenza con l'Italia. Grazie a un rodaggio iniziato negli anni '50, implica un coinvolgimento di lavoratori e “padroni”, un interesse comune per lo sviluppo dell'azienda, pur nella dialettica che normalmente si instaura tra le parti. Le cito un altro istituto che in Italia penso sia molto poco conosciuto, per spiegare meglio quel che intendo...». Prego... «In Germania esiste il comitato economico dell'azienda, che si riunisce a scadenze regolari, se non ricordo male 4 volte all'anno circa. È costituito da rappresentanti del comitato esecutivo, rappresentanti sindacali, del comitato d'impresa e uno o due esterni. Ebbene, il comitato esamina i conti dell'azienda, e ha il diritto di conoscere ogni dettaglio. Ha gli stessi diritti, per intenderci, di un consigliere d'amministrazione. Questo comitato è tenuto alla riservatezza assoluta. E nel corso di tutta la mia attività in Germania non mi è mai capitato che un'informazione sensibile uscisse dall'azienda. I membri del comitato mai hanno rilasciato un'intervista, un comunicato stampa, un'indiscrezione». Da noi in effetti sarebbe quasi un'anomalia. «Sì, ma sa perché questo avviene? Perché il valore guida del rapporto dialettico tra i tre pilastri dell'azienda – azionariato, lavoratori e management – in Germania è la produttività. Si ha la coscienza che salari e dividendi dipendono dall'aumento della produttività, dal diminuire del costo dell'unità prodotta». Siamo tanto lontani? «Tutto questo non avviene in Italia, con i risvolti anche drammatici che stiamo imparando a conoscere. Marchionne sta semplicemente dicendo: guardate che l'auto si fa così. Da noi si inscena un braccio di ferro sui minuti di pausa, ma si tratta del modo di produrre automobili, che è in discussione: se è meno favorevole di quanto lo sia per la concorrenza straniera – è chiaro – non è altro che uno svantaggio. Va bene la dialettica accesa, ma che ci sia sempre obiettività. In Germania ci si confronta sempre nell'interesse dell'azienda, non per aumentare i salari ma per aumentare la produttività». Proporrebbe di prendere spunto da qui, per iniziare una ripresa? «Non penso basti. Ho visto dare una vera sterzata all'economia grazie al governo Gonzales. In Spagna i lavoratori erano protetti quasi quanto i giornalisti italiani. E l'assenteismo variava tra il 10 e il 15%. Ebbene, a un certo punto il governo ha preso una decisione: ogni azienda ogni anno poteva licenziare l'1% dei dipendenti, anche senza giustificazione. Di lì a pochissimo, l'assenteismo è precipitato al 2%. Punizioni, ecco quel che ci vuole. Non arbitrarie, ovviamente, ma in base al funzionamento della macchina organizzativa. Dovremmo partire anche da qui, altrimenti continueremo a fare discussioni astratte». di Giulia Cazzaniga

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