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Pansa: tutti i segreti di Andreotti, il diavolo devoto con un fisico bestiale

Giampaolo Pansa

Il Divo Giulio era contento di essere paragonato al demonio e usava la sua longevità per intimorire gli avversari

Giulio Bucchi
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  di Giampaolo Pansa «È meglio tirare a campare che tirare le cuoia». Giulio Andreotti replicava così ogni volta che lo accusavano di vivacchiare alla testa di un governo inconcludente. Lo diceva con un sorriso al veleno, mentre lo sguardo si faceva gelido. Era un motto adatto alle sue tante stagioni politiche. E si accoppiava con un altro dei suoi detti più celebri: «Il potere logora chi non ce l'ha».  Con quelle poche parole, Giulio zittiva gli avversari esterni alla Dc o annidati nel ventre della Balena Bianca. Tra i nemici esterni sapete chi s'incavolava di più? Non un comunista, bensì un socialista costretto a essergli alleato: Bettino Craxi.  Il leader del Psi non poteva soffrire Andreotti. Di lui diceva: «Giulio è ineffabile,  gelido, multiforme. È una volpe. Ma prima o poi tutte le volpi finiscono in pellicceria». Bettino scalpitava davanti all'eternità andreottiana. A proposito del potere che logora chi non lo possiede, ringhiava: «La filosofia di Giulio è buona soltanto per le democrazie malate. Del resto il logorio di Andreotti ormai è evidente. E giunge per tutti il momento di passare la mano. I più intelligenti lo capiscono in tempo ed evitano di essere disarcionati in malo modo».   Il segretario del Psi parlava così alla fine degli anni Settanta, quando il suo fastidio per Andreotti sembrava arrivato al culmine. E in seguito sarebbe ancora cresciuto, ma senza trovare uno sbocco. Andreotti resisteva. Veniva accusato di essere un mafioso e non batteva ciglio. Gli rinfacciavano di aver baciato Totò Riina, il capo di Cosa nostra, e lui alzava le spalle. Sostenevano che fosse il regista di un'infinità di scandali e lui seguitava a offrire un sorriso più insondabile di quello della Gioconda. L'arma segreta di Giulio, la più efficace tra le tante che usava contro gli avversari, era la sua eterna giovinezza. La fortuna o i geni famigliari lo facevano apparire un signore sempre uguale a se stesso. La figura era snella. La schiena un po' curva ricordava i ragazzi sgobboni, abituati a stare chini sui libri. Portava i capelli a mascagna e pettinati con cura. Le orecchie erano ad ali di farfalla e forse gli consentivano di volare.   La sua eleganza spiccava anche in un ambiente politico sempre vestito in modo decoroso e non scravattato come quello odierno. Se avesse ancora frequentato le assemblee parlamentari, a cominciare dal Senato dove gli era stato concesso di sedere a vita, il suo orrore per l'abbigliamento di tante eccellenze non avrebbe avuto limiti. Lui era sempre all'altezza del proprio rango. Durante le stagioni fredde era famosa la  sciarpa di seta bianca sul cappotto nero di ottimo taglio. Dopo aver descritto Andreotti in un'infinità di articoli, finalmente compresi il segreto della sua eternità politica. Prima di tutto era un fatto fisico. Lui durava più degli altri capi politici perché si amministrava con maggior cura e con fredda perseveranza. Succede spesso con gli esseri umani che anche da ragazzi non sono dei marcantoni. Ma il mistero che lo proteggeva era soprattutto un altro.  Giulio era convinto che il Padreterno gli avesse offerto il dono dell'immortalità. Un regalo che lo metteva al riparo da molti inconvenienti, primo fra tutti quello di andare al Creatore. Questo dono celeste era il suo scudo e, al tempo stesso, l'arma da usare contro gli avversari. Andreotti voleva che i suoi nemici lo temessero anche per la longevità. Cominciammo a chiamarlo Belzebù e ne fu contento. Soprattutto quando veniva affiancato a un altro demonio di serie inferiore: Belfagor, ossia Licio Gelli, il capo della Loggia P2, considerato un suo sottoposto. Comunque anche il Venerabile rivela di saper durare: in aprile ha compiuto 94 anni e si fa beffe dei tanti che lo vorrebbero nell'aldilà.   A Giulio gli avversari non mancavano. Come diceva un signore in camicia nera abituato a parlare dal balcone di Palazzo Venezia? Molti nemici, molto onore. Ben più astuto, Andreotti preferiva smussare gli angoli. Prendeva nota di tutte le cattiverie che gli piovevano addosso e le riciclava nei suoi tanti libri di memorie. Ma preferiva la mediazione più che il duello all'ultimo sangue. Constatai di persona la sua diabolica abilità nel trattare. Accadde fra il 1990 e il 1991, all'epoca della cosiddetta guerra di Segrate, scatenata da Berlusconi per conquistare il gruppo «Espresso-Repubblica».  Eugenio Scalfari era un nemico storico di Giulio. Nel luglio 1989, quando stava per essere varato il sesto governo Andreotti, il suo penultimo, Repubblica offrì un ritratto al vetriolo del nuovo-vecchio presidente del Consiglio. Il grande titolo di apertura strillava: «Andreotti, ancora lui». Sotto il titolo campeggiava un disegno di Giorgio Forattini in formato gigante. Effigiava Giulio VI con la coppola del mafioso, completo di anellone al dito e unghia del mignolo ad artiglio.  L'articolo di fondo, scritto da Scalfari, era un profilo urticante del premier in arrivo. Vale la pena di rileggerlo, costruito com'era a somiglianza di un album di fotografie di famiglia. C'era tutto il percorso di Andreotti con i personaggi che lo avevano accompagnato per un tratto. Padre Lombardi, il microfono di Dio, nella campagna elettorale del 1948. Il generale fascista Graziani e l'abbraccio ai Piani di Arcinazzo. Michele Sindona e Roberto Calvi. L'arcivescovo Marcinkus. I fratelli Caltagirone. Il finanziere Bagnasco. Salvo Lima e tutta la sicilianità legata a lui. Formigoni, Giubilo, Sbardella e compagnia cantante. Personaggi del passato che allora facevano fremere di rabbia i nemici di Andreotti. La conclusione di Scalfari fu al veleno: «Andreotti non tramonta. Andreotti non perdona. Andreotti non dimentica. Ha gli occhi obliqui di un mandarino cinese. Le labbra strette di un gesuita del Settecento. L'andatura circospetta di chi nasconde a se stesso la propria ombra. Averlo nemico può essere un guaio».  A Repubblica ci fregammo le mani: «Belzebù è sistemato!». Eravamo degli ingenui al cubo. Non tenevamo in conto la sublime corazza di Andreotti. Il giorno successivo, era l'11 luglio 1989, al Senato si riunirono i gruppi parlamentari della Dc che dovevano dare il via al sesto governo andreottiano. Molti deputati e senatori sventolavano l'articolo, urlando: «Giulio devi querelare!». Ma lui replicò con una battuta andreottiana al massimo, citando il decaduto Ciriaco De Mita: «Mi basterebbe che Scalfari avesse meno amici in casa nostra.  Io comunque aspiro ad avere sempre più amici e sempre meno nemici». Una saggia regola di vita che poi spinse Andreotti a salvare Scalfari e Repubblica dall'assalto di Berlusconi, grazie alla mediazione di Giuseppe Ciarrapico, il grande Ciarra. E nessuno di noi gli fu grato. I nemici li affidava alle cure della sua spalla fedele, Franco Evangelisti. Di solito si dice che la forza di un capo si giudica dalle qualità del suo vice. Sette volte parlamentare, Franco era stato l'ufficiale di collegamento fra Andreotti e Salvo Lima. Questi aveva portato a Giulio le tessere della propria truppa siciliana, trasformando la corrente andreottiana da feudo romano-laziale a gruppo d'importanza nazionale. E si era meritato la riconoscenza imperitura di Andreotti.  Quando cenavano insieme a Roma, Evangelisti e Lima facevano un gioco assurdo, lo vidi con i miei occhi al ristorante «Girarrosto». Il primo diceva ad alta voce il nome di un dicì e il secondo sentenziava: ricchione oppure non ricchione! Alla voce De Mita, Lima urlò: ricchione! Un anno dopo, era il marzo 1992, venne assassinato da due killer mafiosi mentre usciva dalla villa di Mondello.  Evangelisti era astuto quasi come il principale. Sbagliò una sola previsione. Un giorno mi disse: «Pansa, fai una cazzata a darci per morti. La Dc comanderà sino al Duemila e oltre, perché gli altri partiti sono più stronzi di noi!».  Giulio era davvero un tipo di quelli forti. Come un vero Belzebù era doppio o triplo. Poteva apparire un signore timorato di Dio e incapace di far male a una mosca. Ma un attimo dopo si trasformava in una tigre pronta a sbranarti. Anche la signora con la falce deve aver avuto timore di lui. E della sua certezza di durare. In questo 2013, dopo l'ultimo ricovero al Gemelli, mentre lo riportavano a casa nell'ambulanza, Andreotti  ebbe ancora la forza di mormorare una verità che riguarda tutti noi anziani: «Si invecchia e dunque si campa. Allegria!». Sia pace all'anima sua.     

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