Anche Travaglio ha paura dei giudici
Schifani chiede a "il Fatto" 720mila euro di danni per diffamazione. Di colpo le penne del quotidiano cominciano a non fidarsi delle toghe che hanno sempre sostenuto
di Gianluigi Nuzzi Adesso i corsari del quotidiano il Fatto temono i magistrati, i tribunali, insomma le toghe che hanno sempre sostenuto. Come se i giudici non fossero così saggi e così liberi nelle loro decisioni dal 1992 come proprio le penne del Fatto ripetono da sempre assumendo posizioni che non condividiamo. La questione, come sempre, è di soldi. Ieri apertura, editoriale e le pagini nobili del quotidiano di Travaglio & C erano tutte dedicate all'azione civile intentata dal presidente del Senato Renato Schifani contro il foglio movimentista. Schifani chiede al il Fatto 720 mila euro di danni per una campagna di articoli sui suoi trascorsi in Sicilia e su presunti contatti che ebbe con personaggi legati a Cosa Nostra. La seconda carica dello Stato ritiene gravemente diffamatori quei servizi e ha presentato denuncia. Che altro doveva fare se non chiedere giustizia ai tribunali? Ma quelli del il Fatto non ci stanno. Da una parte rivendicano l'assoluta veridicità delle loro ricostruzioni, ci mancherebbe altro. Dall'altra parte, però, ed è quello che sorprende, dicono chiaro e tondo che qualche giudice potrebbe riconoscere le doglianze di Schifani. Ma come, non bisogna fidarsi della magistratura? “Oggi pensiamo che la causa miri più che altro a mettere una spada di Damocle economica sulla testa di un giornale appena nato”.La frase è pretestuosa per diversi motivi. Insomma, se ci fosse certezza granitica del proprio agire e fiducia piena nella magistratura cosa si dovrebbe temere? Peter Gomez e Marco Lillo sono dei giornalisti che non mollano la presa, quando imboccano un filone investigativo cerco sempre di andare più a fondo, quindi non è certo questa la sede per valutare il loro lavoro. Saranno appunto i magistrati a stabilire se Schifani è stato diffamato o meno. Ma questa “spada di Damocle” non capiamo dove penda se non sulla testa di Schifani che si lamenta di aver patito ogni angheria per mezzo stampa. I giudici pronunceranno sentenza e quelli del il Fatto dovrebbero aver un po' più fiducia nella magistratura, seguendo la loro tradizionale impostazione che la indica come perno di ogni agire, ogni saggezza, baluardo contro ogni arroganza. Invece il Fatto quando finisce sotto schiaffo assume un atteggiamento francamente inaspettato. Serve una premessa: per una patita diffamazione mai somma simile è stata risarcita, nemmeno a un magistrato, categoria professionale che incassa storicamente le più rilevanti liquidazioni dai giudici chiamati a pronunciarsi su cause promosse da colleghi. E questo dettaglio a il Fatto lo sanno benissimo ma si dimenticano di dirlo ai lettori. Sanno bene che le richieste risarcitorie così esorbitanti segnano solo la gravità del danno patito secondo il denunciante ma non vengono mai soddisfatte né impressionano i magistrati chiamati a decidere. Ma non è l'unica cosa dimenticata. I colleghi si scordano anche una prassi consolidata: la causa civile è ormai il tipo di reazione classica a un articolo ritenuto diffamatorio. Gli stessi pubblici ministeri che si sentono offesi non ricorrono più alla denuncia penale. Il motivo? I soldi, come sempre. Il penale stabilisce una pena e delega poi al civile la quantificazione del danno allungando i tempi a dismisura. Meglio allora ricorrere subito al tribunale civile che in un paio d'anni si pronuncia liquidando eventuali somme. Non sappiamo se sia stato questo il ragionamento di Schifani ma loro sono sicuri del contrario, ovvero che il presidente del Senato abbia scelto il civile perché “teme un processo pubblico”. Non conosciamo la fonte di questa notizia ma ne dubitiamo la veridicità: un politico di lungo corso come Schifani ha messo in conto che il Fatto avrebbe amplificato ogni azione di rivalsa rendendo pubblici tutti gli atti di causa. Infatti, l'editoriale ha come inevitabile titolo quel “Scriveremo tutto”, facilmente immaginabile. Insomma, civile o penale conta poco. Eppoi, davvero a il Fatto ritengono che in Italia, nei tribunali bisogna aspettare una denuncia penale per diffamazione per trovare un pubblico ministero che indaghi sull'onestà del presidente del Senato? Evidentemente i loro racconti sull'etica di Schifani non hanno la valenza penale attesa o sperata da alcuni. Per il resto si rassegnino ad aver fiducia nella magistratura, anche quando tocca il loro lavoro, il loro portafoglio. [email protected]