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Se Scajola vuol tornare non lo dica il tribunale

Delegare tutto ai giudici, in Italia, sa tanto di vecchio. Ma non si deve nemmeno replicare il vecchio sistema Dc/ FACCI

Giulio Bucchi
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Claudio Scajola non ha lasciato il governo per ragioni tecnicamente giudiziarie, non è che le sue dimissioni sono state invocate perché risultava indagato o rinviato a giudizio: ne consegue che le stesse ragioni giudiziarie, o meglio la loro confermata assenza, ora non giustificano un suo automatico ritorno al governo. L'azione della magistratura, in altre parole, non può essere la bussola della politica in negativo ma neppure in positivo: se la carta bollata del tribunale non può bastare per creare uno scandalo, non deve bastare neppure per cancellarlo. E spiace dirlo, ma nel caso di Scajola lo scandalo non pare cambiato di una virgola: così pare all'opinione pubblica o meglio a qualche sondaggio che Berlusconi conosce bene. L'ex ministro dello Sviluppo economico, non più di dieci mesi fa, si dimise perché un professionista vicino all'imprenditore Diego Anemone (lui sì indagato) pagò 900mila euro per integrare l'acquisto di un appartamento intestato appunto a Scajola, anche se quest'ultimo dice che quei soldi furono pagati a sua insaputa. È tutto qui: l'ex ministro, il 4 maggio scorso, motivò la decisione di lasciare con la volontà di difendersi dalle accuse: ma da allora di novità di rilievo non ne risultano. VECCHIA POLITICA Si scrive questo non per riavvitarsi nella questione, ma forse per dipanare qualche dubbio circa i significati della famigerata «vecchia politica» rispetto a una che si vorrebbe nuova. Delegare tutto alle decisioni del giudici, perlomeno in Italia, sa decisamente di vecchio oppure di un nuovo che non interessa. Ma tantomeno interessa, così ci pare, replicare il vecchio schema democristiano secondo il quale, ogni volta, ha solo da passà 'a nuttata. In precedenza, nel 2002, andò così proprio nel caso di Scajola: quando gli chiesero perché Marco Biagi non aveva avuto la scorta, ricorderete, Scajola rispose che non poteva darla a tutti, e che Biagi, in ogni caso, era «un rompicoglioni che voleva il rinnovo del contratto di consulenza». VIA DAL VIMINALE Dovette dimettersi da ministro dell'Interno (senza essere indagato, anche lì) con l'aggravante che la brigatista Cinzia Banelli disse che una scorta avrebbe sicuramente impedito l'attentato a Biagi. Poi, ecco, la nuttata passò. E passò anche per altre cose, passò per tanti altri politici sovente perdonati in un Paese che di memoria ne ha sempre poca, ma come dire: le cose, ogni tanto, cambiano. Anche il proposito di creare dei gruppi autonomi «se il partito non cambierà rotta», come ha detto Scajola, ora sa terribilmente di vecchio. Meglio: sa di vecchia corrente democristiana che cerca di alzare la posta. I giornali raccontano che Scajola, ansioso di rientrare in pista, avrebbe rifiutato un ruolo di coordinatore degli enti locali perché è un ruolo con poco potere: speriamo che non sia vero, perché saprebbe di vecchia politica anche questo. «Il PdL è lontano dalla gente» ha detto Scajola nei giorni scorsi. Forse pensa che, se lui torna al governo, la gente si riavvicinerà.

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