Cerca
Cerca
+

Giorgia Meloni: "Più apprendisti e meno stage"

La ricetta del ministro della Gioventù per uscire dalla crisi dei talenti: "I fuoriclasse bisogna farli crescere in azienda"

Andrea Tempestini
  • a
  • a
  • a

Antonio Di Pietro che alla Camera si dice preoccupato per le sorti dei nostri ragazzi? «Questa  preoccupazione gli fa onore», dice il ministro della Gioventù Giorgia Meloni, «se non fosse che anche Di Pietro è parte del problema, se è vero che da quando ha 44 anni percepisce una pensione di duemila euro al mese che cumula allo stipendio da parlamentare. Tutte risorse che chi ha vent'anni oggi non vedrà mai». È battagliera più che mai, il ministro più giovane dell'esecutivo, quando le si chiede il da farsi di fronte agli ultimi dati Istat sulla disoccupazione giovanile e a quelli dell'Isfol. Secondo questo istituto, la crisi non ha risparmiato neppure l'apprendistato: sono sempre meno, infatti, i giovani che pur con un contratto per apprendisti in mano, non riescono a trovare un'occupazione stabile. Proprio oggi il ministro premierà 110 giovani laureati del progetto “Campus Mentis” e da qui siamo partiti per capire le ragioni di una situazione tutt'altro che rosea e, soprattutto, le soluzioni possibili. Ministro, chi sono i giovani che lei premierà oggi? «Sono “eccellenze” perché sono stati selezionati per capacità e merito tra i migliori neolaureati a livello nazionale, sulla base di titolo di studio, età, voto di laurea, tempo impiegato nel conseguimento del titolo e curriculum vitae. Nel 2009 seicento laureati, scelti tra le università di tutta Italia, hanno partecipato a un'esperienza unica di formazione, orientamento e incontro con le più importanti aziende italiane ed estere. Il 77% ha ricevuto una proposta di lavoro entro l'anno. Visti i risultati, l'esperienza è stata replicata nel 2010 attraverso il progetto Campus Mentis, realizzato con la collaborazione dell'Università La Sapienza – Centro di ricerca Impresapiens. Il progetto ha coinvolto 1.800 ragazzi su 3 campus: Roma, Catania e Padova. Grazie allo stanziamento di 11,5 milioni di euro, il progetto continua ora su scala nazionale: oltre 20mila studenti saranno infatti coinvolti dell'esperienza di Campus Mentis nel triennio 2011-2013, e oltre 40mila tra i migliori neolaureati d'Italia saranno inseriti nell'attività di job placement». Perché le imprese dovrebbero scegliere un giovane piuttosto che un lavoratore con esperienza? E quali  consigli darebbe a chi si affaccia sul mondo del lavoro? «La cosa che mi ha stupito di più il primo di anno del progetto che ho descritto poco fa è stata proprio l'incredulità dei responsabili delle risorse umane delle aziende: erano francamente stupiti di trovarsi di fronte ragazzi tanto preparati. Alcuni per esempio mi hanno detto che non si sarebbero mai aspettati che i nostri ragazzi parlassero le lingue meglio dei francesi. Il problema è che, finora, sono mancate occasioni per colmare il divario che esiste in Italia tra scuola, università e lavoro. Se da un lato le aziende non avevano la possibilità di conoscere le potenzialità dei neolaureati italiani, dall'altro nessuno ha mai insegnato veramente ai ragazzi come prepararsi al mondo del lavoro, come “farsi scegliere” dalle aziende. Esistono laureati con 110 e lode e una preparazione invidiabile che arrivano al primo colloquio di lavoro senza essere ancora capaci di compilare correttamente un curriculum. Con Campus Mentis vogliamo dire alle aziende che tra i giovani italiani si trova un potenziale umano straordinario sul quale è fondamentale investire; e ai giovani che finalmente c'è qualcuno disposto a scommettere sul loro talento, a cominciare dalle istituzioni». Al di là dei dati statistici, qual è la situazione attuale? «Le città sono bombardate da slogan elettorali e frasi fatte create dall'opposizione. Credo contino più i dati di fatto, che nella sua azione il Governo ha scelto di privilegiare. Cito solo un miliardo d'investimenti che abbiamo messo in campo insieme ai ministri Sacconi e Gelmini per il piano di occupabilità dei giovani. E i 300 milioni del solo ministero della Gioventù sul pacchetto di “diritto al futuro” dedicato a garantire l'accesso al mutuo per la prima casa alle giovani coppie di precari, a introdurre per la prima volta in Italia il prestito d'onore per i ragazzi che vogliono studiare ma non hanno una famiglia facoltosa alle spalle, a destinare una dote ai giovani genitori precari. E questo solo per rimanere nell'ambito del lavoro di tre ministeri. Ma voglio sottolineare che tutta l'attività di governo è stata improntata a interpretare le politiche giovanili come politiche di sviluppo e non semplicemente come politiche del tempo libero». Dopo 10 anni consecutivi di incremento, nel 2009 per la prima volta si è registrato un decremento dei contratti per apprendisti. Sono 50mila (-8,4%), i giovani che rispetto all'anno precedente non hanno trovato una collocazione lavorativa continuando contemporaneamente a svolgere un percorso formativo. Che significa? «La congiuntura economica si è particolarmente accanita contro l'anello più debole del sistema-lavoro in Italia: i giovani. Se non vogliamo fare semplice demagogia, dobbiamo però considerare che i danni della crisi si sommano a quelli storici del sistema Italia, figlio di una politica che per decenni ha preferito scaricare i debiti sul futuro. Vedi Antonio Di Pietro e le sue preoccupazioni espresse a Montecitorio: i giovani oggi non pagano solo il conto della crisi attuale, ma le conseguenze di danni creati negli anni passati da una politica che pensava solo al presente. I problemi che abbiamo ereditato non si risolvono con la bacchetta magica, ma rivoluzionando un sistema che non si tiene più. Si risolvono avendo il coraggio di riformare profondamente il mondo dell'istruzione e dell'università in modo da ricostruire un sistema che premi il merito. Si risolvono cercando di costruire l'eguaglianza nei punti i partenza e non di arrivo, impegnandosi a garantire prima di tutto il diritto allo studio. Si risolvono anche adeguando gli strumenti a un mondo del lavoro che cambia». Già, ma cosa a suo parere andrebbe fatto nei confronti dello strumento dell'apprendistato? È un problema di mentalità o di burocrazia? «Credo siamo di fronte alla combinazione di entrambi i fattori. Da un lato è maturata nel tempo la convinzione erronea che l'apprendistato sia qualcosa da relegare al lavoro di bottega, quando invece si tratta di un momento formativo fondamentale, seppur declinato in maniera diversa in ogni ambito lavorativo, per quasi tutte le professioni. Dall'altro lato sono convinta che, come giustamente sostiene il ministro Sacconi, occorra sostenere le imprese che scelgono la via del contratto di apprendistato per inserire giovani nel mondo del lavoro ad un livello più qualificato e professionalizzante.  Potenziare l'apprendistato significa inoltre salvare i giovani dai finti stage a titolo gratuito e senza reali opportunità di assunzione con i quali oggi il loro lavoro viene così spesso sottoposto ad una vera e propria forma di sfruttamento». La formazione dovrebbe essere garantita da soggetti terzi, come ad esempio le società di selezione hanno proposto, così da garantire adeguatezza e alleggerendo il datore di lavoro da tale onere? «È una proposta interessante. Credo però che il fatto di poter contare su personale qualificato sia innanzitutto interesse delle aziende e che non si possa delegare tutta la formazione a soggetti terzi. È un po' come nello sport: per poter contare su una rosa di campioni senza svenarsi sul mercato bisogna investire su un vivaio di giovani cresciuti in casa propria». In Veneto è stato appena firmato da Zaia e Sacconi un accordo innovativo sull'apprendistato, che prevede il raddoppio delle ore di formazione. È la strada da seguire?  La palla passa ora alle Regioni? «La collaborazione con le istituzioni locali in questo senso è sempre positiva, soprattutto perché è più facile per le Regioni intervenire a sostegno delle specificità territoriali che, anche in campo lavorativo, sono molte. Coinvolgere gli enti locali o assecondare le loro iniziative non significa però da parte del governo abdicare alla propria azione. L'impegno dell'esecutivo su questo fronte è e resta massimo». di Giulia Cazzaniga

Dai blog