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Scalfari e Bocca, marcia su Arcore: i nonni della patria

Barbapapà piega il Vangelo all'anti-Cav, Giorgio d'accordo con Asor Rosa sulla rivoluzione violenta / BORGONOVO

Giulio Bucchi
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Dopo l'abbuffata di uova, la Pasqua ci ha servito una portata inattesa quanto indigesta: il carrello dei bolliti. La coincidenza di date con il 25 aprile ha causato una riapertura dei sarcofagi dell'antifascismo militante e ne sono usciti, con la baldanza dei vent'anni, i nonni della patria. Arzilli signori pronti alla battaglia più feroce contro Berlusconi,  alla quale si apprestano col coltello fra le dentiere. A suonare il corno, pardon, il trombone per richiamare gli attempati compagni alla pugna è stato Eugenio Scalfari nell'editoriale su Repubblica di domenica. L'articolo si apriva con un reportage da inviato speciale a Gerusalemme: una cronaca sommaria dell'arresto, della crocifissione e della successiva resurrezione di Gesù Cristo. Tutti avvenimenti ai quali il Divino Eugenio era probabilmente presente (pare che nell'Ultima cena di Leonardo Da Vinci lui sia quello ritratto in fondo a sinistra, intento a leggere sull'Espresso i verbali secretati del processo, forniti sottobanco dal sommo sacerdote Caifa in persona). Barpapà, per la teologica occasione ribattezzato Barba-Papa, si è dilettato nell'esegesi del testo biblico e ha regalato alcune perle di saggezza che gli garantirebbero un posto sicuro alla Perugina, come compilatore dei bigliettini contenuti nei Baci. «Non c'è fine perché non c'è principio», dice il Fondatore. Poi ripete  alcuni motti evangelici: «Tu sei il “rabbi”, il Maestro»; «Tu porti in te lo spirito di Mosè»; tu sei «Un grande profeta, più grande di Ezechiele e Geremia». Scalfari è talmente compiaciuto nell'elencarli da farci sospettare che stia parlando di se stesso più che di Gesù. Ce lo immaginiamo nella redazione di Repubblica a farsi dire dai vicedirettori: «Tu sei il Messia, discendente della stirpe di David e sei venuto ad annunciare la fine dei tempi». E in effetti, nell'editoriale, la fine dei tempi la annuncia davvero. Il linguaggio è criptico, da profeta che parli sulle rive del Giordano, ma il riferimento è chiarissimo: «Quando si smonta un'architettura morale senza costruirne un'altra», sentenzia il Vangelo secondo Eugenio, «il fiume della vita cessa di scorrere diventando imputridita palude». Sta parlando dell'Italia ai tempi del Cavaliere, se non  si fosse capito. Un Paese distrutto dal regime, di fronte al quale gli spiriti sani della nazione devono sollevarsi: «A questa sorte dobbiamo ribellarci, questo pericolo dobbiamo scongiurare». Se Scalfari si limita a sostenere la necessità di una rivoluzione, qualche informazione in più sui metodi della battaglia li offre un'altra star del carrello dei bolliti. Trattasi di Giorgio Bocca, novantenne brasato al barolo, che in una lunga intervista pubblicata dal sito Lettera43 aderisce con foga al progetto di golpe messo a punto qualche giorno fa sul manifesto dal suo collega  Alberto Asor Rosa (che ha tre nomi e nemmeno mezza idea intelligente). Riepiloghiamo per chi non la conoscesse la proposta del professor Asor: «Ciò cui io penso», scrisse, «è  una prova di forza che (...) scenda dall'alto, instaura quello che io definirei un normale “stato d'emergenza”, si avvale, più che di manifestanti generosi, dei Carabinieri e della Polizia di Stato, congela le Camere, sospende tutte le immunità parlamentari, restituisce alla magistratura le sue possibilità e capacità di azione, stabilisce d'autorità nuove regole elettorali».  Di questo colpo di Stato nel nome di Asor Rosa, Giorgio Bocca è entusiasta: dopo il golpe strisciante, ecco quello claudicante. «Mi sembra che dicesse quel che dico io», confessa all'intervistatrice Gabriella Colarusso, che allibita gli chiede: «Blocchiamo le camere con la forza?». Bocca placido replica: «Dovremmo avere il coraggio di farlo. (...) La politica ogni tanto ha bisogno di gesti di forza. Bisognerebbe fare una rivoluzione che non abbiamo il coraggio di fare». «Anche violenta?», prosegue sempre più spaventata la giornalista. E Bocca: «La violenza nella vita sociale è necessaria». Quando la ragazza gli fa notare che Berlusconi è stato eletto dal popolo, il novantenne ex fascista ed ex partigiano sbuffa: «Il consenso popolare... Ci vuole la forza. In politica ogni tanto occorre la forza, senza non ti muovi». Citiamo ancora qualche affermazione qua e là, una piccola antologia del Bocca-pensiero: «Per dettare delle regole c'è bisogno di qualcosa di severo e di forte»; «La guerra partigiana avremmo dovuto farla altre volte. Mao in fondo aveva ragione sulla rivoluzione continua»; «Quello che conta sono le minoranze intellettuali, ad esse è affidata la buona democrazia». Più che un'intervista è un caso di accanimento terapeutico. Bocca, pur parlando come un fascistone dei tempi andati,    in questa notte dei bolsi viventi tra un Asor, una Rosa e uno Scalfari  si rivela il più lucido. Qualche giudizio interessante lo dà, punge  anche a sinistra (Di Pietro? Un piccolo duce. Fabio Fazio? «Un altro che recita». Saviano? «Mi sta sui coglioni»).  Ma soprattutto, rivela una grande verità sui suoi compagni della rivoluzione col gerovital: «La vecchiaia è faticosa e poco divertente». Ecco perché bisogna movimentarla invocando la rivolta armata. Il golpe dei nonni (a proposito del quale aspettiamo fiduciosi il commento di Giorgio Napolitano) può contare anche sulla baionetta di Furio Colombo, la stessa che l'editorialista del Fatto utilizzava durante le guerre napoleoniche. Sul giornale di Travaglio egli afferma, con grande originalità, che siamo al fascismo, quasi al nazismo. I rom vengono sottoposti a «rastrellamenti notturni», il premier è un «uomo squilibrato dal quale il mondo ormai sta alla larga» ed è ormai giunta l'ora di «cancellare un'Italia storta e malata in cui si lasciano morire i “clandestini” in mare». Facciamo un paio di conti: Asor Rosa è nato nel 1933; Bocca nel 1920; Scalfari nel 1924; Colombo nel 1931: mancano solo due stegosauri e un liocorno e l'arca di Noè è completa. Non si capisce bene che c'entri, tra i mille bolliti rossi,  Paolo Flores d'Arcais, classe 1944. Anche lui, sempre sul Fatto, si strappa i  capelli per lo sdegno e sostiene che la «resistenza antifascista fu tutt'uno con la Costituzione repubblicana» e che chiunque osi mettere in dubbio i valori dell'una e dell'altra, «chi non vi partecipa “toto corde” è perciò contro la patria, dell'Italia si fa nemico». Che bravo, Paolino Flores, se va avanti così gli fanno fare la piccola vedetta lombarda: mentre i colleghi più anziani scalano col bastone in una mano e la sciabola nell'altra la collina di Arcore per catturare il Biscione, lui può aiutare rifornendoli di pappa reale e pillole (comprese quelle blu, ché in quella casa non si sa mai cosa può accadere). Perché a promettere la rivoluzione a Villa San Martino son capaci tutti,  però bisogna arrivarci. A piedi è lunga, cari, poi ci tocca chiamare l'elisoccorso.

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