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Ci credevamo 'compagni', ma eravamo solo degli sciagurati

Assurdo perdersi dietro gli psicodrammi lessicali di Nichi: scorciatoie vuote per non guardare la realtà / MUGHINI

Rosa Sirico
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Non so esattamente come l'abbia detto il sempre prodigo Nichi Vendola, e cioè che a sinistra oggi è meglio chiamarsi “amici” e non più “compagni”, certo è che le sue parole mi hanno fatto ringiovanire di quarant'anni. Ai tempi dei Sessanta in cui la mistica della parola “compagni” faceva da architrave della favola per antonomasia della nostra giovinezza. Quale giovinezza non ha bisogno di una favola in cui credere, di una favola che spieghi tutto e che ti dia fiducia, di una favola che riduca al minimo la complessità e i misteri della vita? Bastava chiamare “compagno” quello che ti stava accanto all'università e che aveva più o meno le tue stesse idee su Fidel Castro, e anche se di quell'avvocato cubano sapevamo pochissimo più di zero; chiamare “compagni” e “compagne” quelli che nei cortei urlavano a perdifiato le nostre due o tre idee sul mondo; chiamare “compagni” quelli con cui andavi a mangiare una pizza e una birra, ed era un modo di rendere più sacro quel cerimonale da ventenni poveri e acerbi che noi eravamo; e poi c'erano i “compagni” più “compagni” di tutti, quelli che molti di noi non avevano visto né da vicino né da lontano, la classe operaia, gli operai in carne ossa. E anche se nel nostro piccolo gruppo di universitari catanesi che ogni capello politico e ideologico lo spaccavamo in quattro, di “compagni” di quel tipo ce n'era sì e no uno. Non era un operaio per niente, era uno che stava a capo di una piccola azienda artigiana. Questo bastava per conferirgli ai nostri occhi la sacralità “proletaria”. Credo partecipasse alle nostre discussioni e ai nostri recital per venire a sbirciare le gambe delle nostre “compagne”, che per fortuna nostra e del mondo erano state messe a nudo da una stilista londinese, Mary Quant. Fatto è che quando lui prendeva la parola, noi “universitari” lo ascoltavamo nel più religioso dei silenzi. Lui sì che era “un compagno”. E con l'eccezione del commento autoironico di Adriano Sofri sul Foglio («Sono completamente d'accordo col compagno Vendola»), mi pare di capire che molti della sinistra l'affermazione di Vendola l'abbiano presa come un sacrilegio. Rinunciare alla parola “compagni”, ma siamo pazzi? Rinunciare all'utensileria affascinante contenuta nei musei del drammaticissimo Novecento, di quando i “compagni” combattevano corpo a corpo contro i franchisti alla Città Universitaria di Madrid, o di quando in tutta Europa i militanti e gli operai di sinistra gridavano “Viva il compagno Stalin” prima di cadere crivellati dai plotoni di esecuzione nazi? Ma che c'entra tutto questo non i nostri guai dell'oggi, con il decidere se sì o no fare pagare il ticket sulle visite specialistiche anche a chi ha un reddito modesto, e quando mandare in pensione gli ultrasessantenni eccetera eccetera? E a proposito di “compagni”, bisogna dunque chiamarlo “compagno Carlo De Benedetti” il titolare della tessera numero 1 del Pd. Beninteso, ne sto parlando con il massimo di rispetto per la persona, il mio è solo un invito a guardare in faccia la realtà del terzo millennio. Per quanto mi riguarda quella parola magica, “compagno”, l'avevo trovata inutile e insussistente molto presto. L'avevo detto in cento occasioni che la parola “amico” la trovavo più che sufficiente a connotare una sintonia, quella di avere in comune delle opzioni morali e ideali. Lo dissi una volta pubblicamente a una Festa dell'Unità a Bologna, nel 1977, nel rivolgermi a uno che mi aveva chiamato “compagno”: «Chiamami amico, è più che sufficiente» gli risposi. Un mio amico che sedeva in prima fila mi confessò dopo di avere temuto che a quel punto succedesse un putiferio, che la platea prevalentemente insorgesse inferocita. Per fortuna non accadde nulla. Era il 1977. Dopo di che il comunismo in tutto il mondo ha chiuso bottega nel disonore. Tanto che Stalingrado non si chiama più così, e via dicendo all'infinito. Quelli di noi che avevano vent'anni nei Sessanta, se oggi si incontrano per strada né si riconoscono né hanno nulla da dirsi. La mia vita reale, la mia maturazione reale, è cominciata proprio quando ho smesso di sentirmi parte di una tribù speciale ed eccellente: la tribù dei “compagni”. Quando ho cominciato a guadagnarmi il pane boccone a boccone e imparato a pagare le bollette per tempo; quando ho imparato che la vita è troppo complicata e difficile per ridurla a un qualche slogan, quando ho imparato che nella società e nella vita di tutti noi non ci sono i “buoni” e i “cattivi” e bensì un guazzabuglio pazzesco del meglio e del peggio da cui devi districarti ora per ora. Quando ho capito che ad avere nella vita due o tre “amici” di cui valga la pena, è già un miracolo. Amici, ho detto.

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