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Pansa: Il mostro dell'Eternit non è morto col processo

Addio al giornalista che raccontava le vittime dell'amianto, Marco Giorcelli. Ma ci saranno altri "sommersi" dalla fabbrica maledetta

Andrea Tempestini
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Può fare notizia la morte di un giornalista, avvenuta per malattia e non a causa di un attentato mafioso o del terrorismo politico? Qualche volta sì. È il caso di Marco Giorcelli, direttore del bisettimanale della mia città natale, «Il Monferrato». Un giornale più forte di tanti quotidiani, con molte pagine ben costruite e abbondante pubblicità. Una testata leader non soltanto a Casale Monferrato, ma anche in aree dell'Alessandrino e del Vercellese. Giorcelli è morto giovedì scorso, di prima mattina, in casa. Aveva appena 51 anni e a ucciderlo è stato il mesotelioma pleurico, ossia il tumore ai polmoni prodotto dall'amianto. In questi ultimi anni sono stati tantissimi i casalesi uccisi da quello stesso male. Una maledizione dovuta alla presenza in città di una grande fabbrica divenuta simbolo di morte: l'Eternit. Quante vittime ha fatto l'Eternit? Nessuno la sa con certezza. Ma le cifre più o meno sicure spaventano: da 1.640 a quasi duemila. Una strage che è un caso unico in Italia. Casale è una città di piccole dimensioni, nel succedersi dei decenni non è mai arrivata a quaranta mila abitanti. Qui l'Eternit ha provocato più morti delle due guerre mondiali, con l'aggiunta della guerra civile. La retorica non mi è mai piaciuta. Ma tutte le volte che sento parlare e vedo scrivere di “città martire”, penso non sia un'immagine campata per aria. Confesso di non ritornare volentieri nel posto dove sono nato e vissuto sino ai 23 anni, quando la laurea e il primo lavoro mi hanno portato a Milano e poi a Torino.  La città è più bella e ordinata di quando ci stavo io. Ma non conosco nessuno degli abitanti di oggi. Passeggio per via Roma, sotto i portici lunghi e corti, e m'imbatto in ragazze splendide. Le scruto, poi penso che potrebbero essere le mie nipoti e mi prende il magone del vecchio signore. Forse le donne che ho corteggiato e amato da giovanotto sono ancora in vita. Ma ho il terrore di incontrarle per la paura di vedere rispecchiata nella loro decadenza fisica la mia stessa vecchiaia. Anche il palazzo dove sono vissuto è tutto cambiato nella struttura interna. Per ritrovare gli ambienti che fanno parte della mia vita devo rifugiarmi negli edifici storici: il grande duomo romanico, il palazzo comunale, la vecchia casa del fascio e poi dei partiti di sinistra nel dopoguerra, che hanno visto passare la storia della città. Su tutto si distende il gelido sudario dell'Eternit e dei tanti uccisi dall'amianto. La conclusione feroce di un percorso che narra la vita passata della mia piccola patria. Fra l'Ottocento e il Novecento i ragazzi poveri del Monferrato avevano quattro possibilità. La prima era diventare braccianti avventizi al servizio degli agrari della zona o del Vercellese. La seconda era lavorare nelle cave di marna, in condizioni bestiali. Consumavano la vita sottoterra, senza protezioni, rischiando di morire bruciati dal grisou. Lo facevano per paghe miserabili. Tanto che nel 1913 “La Fiaccola”, il settimanale socialista di Casale, li descrisse con due parole: “I sepolti vivi”. La terza occasione era fare gli operai nei cementifici. Le abbondanti marne calcaree, la materia prima della calce e del cemento, regalarono alla città il primo boom industriale. All'inizio del Novecento, il profilo di Casale presentava una batteria sterminata di ciminiere. Affilate come missili, sparavano un fumo sempre più denso e acre. I tetti della case erano bianchi. D'estate l'aria diventava irrespirabile. E non oso immaginare quale fosse l'ambiente interno ai cementifici.  Nel 1906 emerse una quarta possibilità. Un gruppo di imprenditori genovesi impiantarono una fabbrica all'avanguardia. Produceva tegole piane fatte di cemento e amianto, secondo un brevetto austriaco. L'invenzione venne chiama Eternit perché garantiva una durata eterna del prodotto. Dalle tegole si passò alle lastre, poi ai tubi per gli acquedotti e le fognature. E lo sviluppo dell'azienda fu impressionante. Il cuore dell'Eternit stava a un passo dal centro cittadino, nel quartiere del Ronzone. Arrivò a occupare 2.400 uomini, ma di lì ne passarono quasi cinque mila. Le norme sulla sicurezza del lavoro non esistevano. E nessun pensava che l'amianto potesse uccidere. Del resto, l'Eternit era la nostra Fiat: guai a toccarla.  Ci lavorò anche mio zio Francesco, l'ultimo fratello di mio padre. Fu assunto nel 1916, quando aveva 15 anni. Divenne un montatore dei grandi tubi di Eternit per gli acquedotti, soprattutto nell'Italia del sud. Stufo dell'Eternit, emigrò in Argentina, ma dopo due anni ritornò a Casale, sempre nella stessa fabbrica. Quando morì, molti anni più tardi, nessuno si pose il problema di che cosa l'avesse portato alla tomba. Il mostro dell'Eternit chiuse i battenti nel 1986, per fallimento. In quell'anno gli impianti si estendevano per 94 mila metri quadrati, metà dei quali coperti con il prodotto maledetto. Una bomba nucleare sul fianco destro del Po. La lavorazione dell'amianto aveva persino creato una nuova spiaggia lungo il fiume. Aveva un colore innaturale, bianco brillante. Un grande velo di sposa che nascondeva un numero spaventoso di malati senza speranza e poi di morti.  Quando emerse il disastro, il «Monferrato» diretto da Marco Giorcelli divenne la Spoon River della strage. Marco si rivelò un giornalista diverso dai tanti fanatici di oggi. Era un professionista tranquillo, però molto determinato. Chiese alla sua redazione di non stilare proclami, bensì di narrare le storie degli ammalati di mesotelioma e di indagare su quanto si stava facendo per salvarli. Purtroppo, i salvati erano pochi rispetto alla folla dei sommersi. Il mesotelioma era uguale a un roulette russa: non si sapeva mai chi sarebbe stato raggiunto dal proiettile di quella pistola micidiale. Tutto sembrava dovuto al caso. Viveva chi aveva sempre lavorato all'Eternit e moriva chi non ci era mai entrato. Rimase ucciso il più importante cementiere italiano, alla testa di un gruppo potente. La stessa sorte toccò alla nuora di un calciatore famoso. E alla moglie di un giornalista che era sempre vissuta all'estero con il marito, prima a Mosca, poi in Germania e infine a Roma. L'ultimo, per ora, è il direttore del «Monferrato». La diagnosi, una condanna alla pena capitale, gli era stata rivelata un anno fa. Prima di perdere tutte le forze, ha voluto scrivere l'articolo di fondo che lo riguardava, pubblicato venerdì dal suo giornale. Giorcelli riuscì a vedere la condanna dei due ultimi proprietari dell'Eternit. Ma per lui il tempo stava scadendo. Resta il problema gigantesco dell'amianto nascosto dappertutto. Negli intonaci delle case. Nelle cisterne per la raccolta dell'acqua. Nelle tubature. Persino nei forni delle cucine private. Nelle stufe. Nei ferri da stiro. L'amianto è un mostro che ci minaccia tutti. E non soltanto nella mia città. Ascolto grandi promesse di bonifica. Ma non ci credo molto. Venerdì un breve commento del “Corriere della sera” si concludeva con un incitamento: “Giustizia significa non arrendersi all'ineluttabile, al fatalismo, al non lasciare soli una città e un Comune che hanno mostrato dignità”. Sono parole che sottoscrivo, ma con il pessimismo di chi è convinto che Casale continuerà a dire addio in solitudine ai propri morti. Quando la signora con la falce bussa alla tua porta, trovi accanto a te soltanto chi ti ama e nessun altro. di Giampaolo Pansa

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