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Socci: per uscire dalla crisi Dio è meglio del Pil

Per tornare a crescere l'Occidente deve riscoprire le sue radici cristiane. Imitare la Cina non servirà a nulla

Andrea Tempestini
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Monopolizzano la scena ormai da mesi: la “signora crescita” e il “signor Pil”. E inseguiamo tutti drammaticamente il loro matrimonio. Anche in queste ore sono al centro delle trattative fra partiti, governo e sindacati. La politica italiana si è perfino suicidata sull'altare di questa nuova divinità statistica da cui sembra dipendere il nostro futuro. Se però alzassimo lo sguardo dalla cronaca dovremmo chiederci: chi è questo “signor Pil”? I manuali dicono che è il «valore di beni e servizi finali prodotti all'interno di un certo Paese in un intervallo di tempo». Ma fu proprio l'inventore del Pil, Simon Kuznets, ad affermare che «il benessere di un Paese non può essere facilmente desunto da un indice del reddito nazionale». Lo ha ricordato ieri Marco Girardo, in un bell'articolo su Avvenire, aggiungendo che ormai da decenni economisti e pensatori mettono in discussione questo parametro: da Nordhaus a Tobin, da Amartya Sen a Stiglitz e Fitoussi. Girardo ha riproposto anche un bell'intervento di Bob Kennedy, che già nel 1968, tre mesi prima di essere ammazzato nella campagna presidenziale che lo avrebbe portato alla Casa Bianca, formulò così il nuovo sogno americano: «Il Pil non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull'America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani». Non è una discussione astratta. Infatti con l'esplosione e lo strapotere della finanza - che nei primi anni Ottanta valeva l'80 per cento del Pil mondiale e oggi è il 400 per cento di esso – questo “erroneo” Pil è diventata la forca a cui si impiccano i sistemi economici, il benessere dei popoli e la sovranità degli stati. Oggi la ricchezza finanziaria non è più al servizio dell'economia reale e del benessere generale, ma conta più dell'economia reale e se la divora, la determina e la sconvolge (e con essa la vita di masse enormi di persone). Anche perché ha imposto una globalizzazione selvaggia che ha messo ko la politica e gli stati e che sta terremotando tutto. La crescita del Pil o la sua decrescita decide il destino dei popoli, è diventata quasi questione di vita o di morte e tutti - a cominciare dalla politica, ridotta a vassalla dei mercati finanziari - stanno appesi a quei numerini. Dunque le distorsioni e gli errori che erano insiti nell'originaria definizione del Pil rischiano di diventare giudizi sommari e sentenze di condanna per i popoli. Per questo, l'estate scorsa, nel pieno della tempesta finanziaria che ha investito l'Italia, un grande pensatore come Zygmunt Bauman, denunciando «un potere, quello finanziario, totalmente fuori controllo», descriveva così l'assurdità della situazione: «C'è una crisi di valori fondamentali. L'unica cosa che conta è la crescita del Pil. E quando il mercato si ferma la società si blocca». Nessuno ovviamente può pensare che non si debba cercare la crescita del Pil (l'idea della decrescita è un suicidio). Il problema è cosa vuol dire questa “crescita” e come viene calcolata oggi. Qui sta l'assurdo. Bauman faceva un esempio: «Se lei fa un incidente in macchina l'economia ci guadagna. I medici lavorano. I fornitori di medicinali incassano e così il suo meccanico. Se lei invece entra nel cortile del vicino e gli dà una mano a tagliare la siepe compie un gesto antipatriottico perché il Pil non cresce. Questo è il tipo di economia che abbiamo rilanciato all'infinito. Se un bene passa da una mano all'altra senza scambio di denaro è uno scandalo. Dobbiamo parlare con gli istituti di credito». Con questa assurda logica - per esempio - fare una guerra diventa una scelta salutare perché incrementa il Pil, mentre avere in un Paese cento Madre Teresa di Calcutta che soccorrono i diseredati è irrilevante. Un esempio italiano: avere una solidità delle famiglie o una rete di volontariato che permettano di far fronte alla crisi non è minimamente calcolato nel Pil. Eppure proprio noi, in questi anni, abbiamo visto che una simile ricchezza, non misurabile con passaggio di denaro, ha attutito dei drammi sociali che potevano essere dirompenti. Ciò significa che ci sono fattori umani, non calcolabili nel Pil, che hanno un enorme peso nelle condizioni di vita di una società e anche nel rilancio della stessa economia. Perché danno una coesione sociale che il mercato non può produrre, ma senza la quale non c'è neppure il mercato. Ecco perché Benedetto XVI nella sua straordinaria enciclica sociale, “Caritas in Veritate”, uscita nel 2009, nel pieno della crisi mondiale, ha spiegato che «lo sviluppo economico, sociale e politico, ha bisogno, se vuole essere autenticamente umano di fare spazio al principio di gratuità», alla «logica del dono». Ovviamente il Papa non prospetta “l'economia del regalo”. Il “dono” è tutto ciò che è “gratuito”, non calcolabile e che non si può produrre: l'intelligenza dell'uomo, l'amore, la fraternità, l'etica, l'arte, l'unità di una famiglia, la carità, l'educazione, la creatività, la lealtà e la fiducia, l'inventiva, la storia e la cultura di un popolo, la sua fede religiosa, la sua laboriosità, la sua speranza. Se vogliamo guardare alla nostra storia, sono proprio questi fattori che spiegano come poté verificarsi, nel dopoguerra, quel “miracolo economico” italiano che stupì il mondo. Tutti oggi parlano di crescita (e siamo sotto lo zero), ma come fu possibile in Italia, dal 1951 al 1958, avere una crescita media del 5,5 per cento annuo e dal 1958 al 1963 addirittura del 6,3 per cento annuo? Non c'erano né Monti, né la Fornero al governo. Chiediamoci come fu possibile che un Paese sottosviluppato e devastato dalla guerra balzasse, in pochi anni, alla vetta dei Paesi più sviluppati del mondo. Dal 1952 al 1970 il reddito medio degli italiani crebbe più del 130 per cento, quattro volte più di Francia e Inghilterra, rispettivamente al 30 e al 32 per cento (se assumiamo che fosse 100 il reddito medio del 1952, nel 1970  noi eravamo a 234,1). È vero che avemmo il Piano Marshall, ma anche gli altri lo ebbero. Inoltre noi non avevamo né materie prime, né capitali, né fonti energetiche. Eravamo usciti distrutti e perdenti da una dittatura e da una guerra e avevamo il più forte Pc d'occidente che ci rendeva molto fragili. Quale fu dunque la nostra forza? È - in forme storiche diverse - la stessa che produsse i momenti più alti della nostra storia, la Firenze di Dante o il Rinascimento che ha illuminato il mondo, l'Europa dei monaci, degli ospedali e delle università: il cristianesimo. Pure la moderna scienza economica ha le fondamenta nel pensiero cristiano, dalla scuola francescana del XIV secolo alla scuola di Salamanca del XVI. Noi c'illudiamo che il nostro Pil torni a crescere se imiteremo la Cina. Ma la Cina - anzi la Cindia - non fa che fabbricare, in un sistema semi-schiavistico (quindi a prezzi stracciati), secondo un “know how” del capitalismo che è occidentale. Scienza, tecnologia ed economia sono occidentali. L'Oriente copia. Proprio l'Accademia delle scienze sociali di Pechino, richiesta dal regime di «spiegare il successo, anzi la superiorità dell'Occidente su tutto il mondo», nel 2002, scrisse nel suo rapporto: «Abbiamo studiato tutto ciò che è stato possibile dal punto di vista storico, politico, economico e culturale». Scartate la superiorità delle armi, poi del sistema politico, si concentrarono sul sistema economico: «negli ultimi venti anni» scrissero «abbiamo compreso che il cuore della vostra cultura è la vostra religione: il cristianesimo. Questa è la ragione per cui l'Occidente è stato così potente. Il fondamento morale cristiano della vita sociale e culturale è ciò che ha reso possibile la comparsa del capitalismo e poi la riuscita transizione alla vita democratica. Non abbiamo alcun dubbio». Loro lo sanno. Noi non più. di Antonio Socci www.antoniosocci.com

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