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Sergio Marchionne, Renato Farina: "Tutto è precipitato, addio"

Cristina Agostini
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Giù il cappello, Sergio Marchionne se ne va, a 66 anni. Aveva preannunciato le dimissioni per il 2019, invece tutto è precipitato in queste ore. "Congedo medico". Le illazioni sono ovvie, quasi tutte menagramo. Le comunicazioni ufficiali sono del resto così scarne da autorizzare dicerie tristi: l'«intervento chirurgico alla spalla» effettuato a fine giugno in un ospedale svizzero ha determinato la necessità di una convalescenza prolungata. Infine l' emergere della gravità delle sue condizioni. «Non potrà più lavorare», dice con emozione John Elkann, l' erede dell' Avvocato. Leggi anche: Sergio Marchionne, gira una voce dall'ospedale: "Queste sono le sue reali condizioni di salute" Più che cercare indiscrezioni, preferiamo augurargli salute. Conoscendolo abbiamo confidato si fosse tolto dalla tolda di comando per meno di un destino tragico: non era certo il tipo che si mette in malattia, e campa con i certificati. Avremmo voluto scherzarci, su quella spalla. Non è più possibile. Siamo angosciati. Per lui, ma da italiani, anche per noi. Registriamo che neppure noi ci sentiamo troppo bene. La sua rinuncia alla guida dell' impero degli Agnelli (Fiat-Fca-Ferrari-ecc ecc) ci tramortisce. Non abbiamo partecipazioni agli utili, non siamo parenti degli Elkan, però constatiamo che grazie a questo manager italiano emigrato in Canada e ritornato, la Fiat da anni ha smesso di succhiare denaro dalla mammella di mamma Italia, ed anzi, accidenti, assume e produce fior di auto, alta tecnologia, organizzazione fantastica (jeep e il resto). ROSSO FERRARI - Sergio ha spinto prepotentemente in alto, a sventolare nei cieli del mondo, l' unico rosso che fa sperare, quello Ferrari. Scusate il tono del rimpianto, ma c' è una specie di costante nella storia di questa nostra patria. Quando c' è uno bravo, anzi un fuoriclasse, prima facciamo di tutto per cacciarlo via, come Gesù da Nazaret, poi quando i saliscendi della vita lo allontanano dai nostri orizzonti, cominciamo con la nostalgia di un' ora, poi si riprende con la denigrazione. Be', almeno noi, no. Non abbiamo bisogno del coccodrillo, con annesse lacrime da rettili. Di Marchionne abbiamo sempre difeso le ragioni. Sempre vuol dire anche quando saltava le siepi delle ideologie consolidate. A noi non è dispiaciuto che per difendere il marchio, senza rinunciare alle sue idee industriali, sia andato a braccetto con Renzi e con Obama. Ci va benissimo che assecondando Trump e i sindacati americani, abbia poi deciso di investire un miliardo riportando una fabbrica Chrysler a casa, dalle parti di Detroit, rinunciando alla delocalizzazione in Messico. A sinistra, tranne il Fiorentino, l' hanno sempre trattato come lo "sfruttatore" (scritta apparsa sui muri delle città italiane accanto al suo nome sin dal 2010); a destra prima hanno apprezzato le sue tesi sui rapporti diretti coi lavoratori e la loro partecipazione agli utili. Poi non hanno digerito il suo sì al referendum e la stima al governo Renzi, accusandolo di ingratitudine e minacciando future ritorsioni. Che noia. Uno fa il suo lavoro. Si possono avere opinioni diverse sul contingente, ma uno si inchina alla genialità di chi trova acqua nel deserto dell' economia italiana e mondiale. È da pazzi contestare chi come il top manager nostrano ha preso a calci gli gnomi della finanza speculativa, facendo risorgere la manifattura e la conseguente occupazione. Tenendo i piedi negli opifici, trasformati in gioielli tecnologici, senza giocare coi derivati rubando ai risparmiatori. RIPOSO A DAVOS - Il tono è quello dell' addio? Forse non è illusione sperare che abbia semplicemente mollato il volante, e debba soltanto riposare a Davos come gli eroi malati di Thomas Mann. Del resto, lo stesso Marchionne aveva predisposto la selezione dello staff per il futuro. Solo... non così in fretta. Il nuovo, senza di lui, con questa rapidità precipitosa, fa precipitare anche noi. Ma ci deve interessare solo Marchionne. La sua persona. Gli siamo affezionati. Ci piace lo stile, la capacità di lavoro, la franchezza del linguaggio, la visione della vita così moderna e ancorata a sorgenti antiche e sempre fresche. Uno degli incontri più belli di questi anni lo fece al Meeting di Rimini nel 2010, invitando i giovani, mentre si era in piena crisi, a cominciare da quello che c' è, a non spaventarsi del lavoro precario, usandolo senza farsene usare. La musica opposta a quella che si sente oggi con il decreto dignità. Sergio ha realizzato oltre che i prototipi da corsa, anche l' italiano da corsa del tipo nuovo. Che poi è lui stesso. Le radici qui (molto Abruzzo dal padre, molto Veneto e Dalmazia dalla madre), le fronde là. Là dove? Nella galassia. Non c' entra con il cosmopolitismo senza patria. IL SALVATAGGIO - Quando è stato scelto da Umberto Agnelli per guidare la Fiat, mentre lavorava in Svizzera, ed era il 2004, la Ditta perdeva due milioni di euro al giorno. Una faccenda da disperati, salvarla. Lui si è stabilito al Lingotto. Vedeva tutti i capi settori, uno per uno. Senza delegare. Giocava a carte la sera con il sindaco Fassino. Il sabato e la domenica girava per lo stabilimento da solo, a controllare mense, docce, cessi. Non si può lavorar bene se si vive nell' indecenza, disse. Altro che anti-operaio. Ripulì e risistemò gli ambienti. Tutti. Quelli fisici tra le presse. Ma pure quelli della dirigenza, spesso con due cognomi, paga tripla e mezza testa. Gliela tagliò, era roba minima. Ha tagliato corto anche con i sindacati. E con la Confindustria. Persino con i padroni: nessuna casta. Il merito e basta. Non deciso secondo algoritmi astrusi, ma per l' evidenza dei risultati e del clima determinato. La bellezza, la tecnologia, nessuna carretta per le strade in nostro nome. E il nostro nome italiano, il nostro stile, ovunque. Non come conquista coloniale, ma per fascino. Nessun globalismo alla Soros, frullato senza patria, bensì identità che commercia la propria differenza travolgendo ogni confine. Un dna da esportazione che tutti hanno capito essere precipuamente italiano: in America, in Brasile, in Cina. Con un beneficio per il nostro Paese quanto a prestigio, che si traduce in merci vendute, turismo, benessere. Ci fossero politici della sua stessa tempra e di un po' della sua cultura. Non è solo il fatto delle lauree, ma di saperle paragonare con le cose. (Peraltro tre lauree: la prima in filosofia, cui lui dice di dovere l' apertura umanistica; quindi giurisprudenza; infine economia). Non aveva certo sbagliato Berlusconi a indicare a Feltri che avrebbe visto volentieri Marchionne come candidato premier del centrodestra. La replica è stata: «Berlusconi è un grande, ma non ci penso neppure di notte». Impossibile immaginarlo mediare con Di Maio e dibattere con Bonafede. IL BENE COMUNE - Non parlava molto negli ultimi mesi. Ci bastava che esistesse e lavorasse, capace di cavare il positivo dalle situazioni di crisi, non votandosi alla fortuna o alle compiacenze dei politici come fece la Fiat prima di lui, ma credendo alle prerogative salvifiche del lavoro unito all' intelligenza e a un' idea di bene comune. Per questo si è fatto capire dai sindacati e dagli operai americani, che gli hanno decretato il trionfo. Anche dagli operai italiani, anche se più a fatica. Hanno alla fine sempre votato a favore delle sue proposte nei referendum, nonostante il sindacato principale dei metalmeccanici, la Cgil-Fiom di Camusso e di Landini gli abbiano dato guerra e siano riusciti a cacciarlo. Ma solo per un po'. Ora però ci lascia soli. Marchionne ha sempre sostenuto che le grandi cose si fanno con una squadra che sa giocare insieme. Però. Però poi c' è la solitudine del leader. Disse: «La leadership non è anarchia. In una grande azienda chi comanda è solo. La collective guilt, la responsabilità condivisa, non esiste. Io mi sento molte volte solo». Vorremmo ora confortare la tua solitudine, amico. di Renato Farina

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