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Pansa: vi racconto Eugenio Scalfari, un Barbapapà spacciato per Padreterno

Giulio Bucchi
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«Non verresti a lavorare con me a Repubblica?» mi domandò Eugenio Scalfari. Risposi: «Ti ringrazio per l'invito, ma dico no». «Perché no?» chiese ancora Eugenio. Avrei dovuto ribattergli con una spiegazione troppo lunga. E replicai: «Ho un patto con Piero Ottone. Resterò con lui al ‘Corriere della sera', sino a quando Piero si dimetterà». Era il 2 giugno 1975 e mi atterrisce il tempo infinito trascorso da allora. Scalfari aveva 51 anni, io 39. Lui non era ancora il Padreterno che oggi, mentre compie i novanta, molti credono o vogliono che sia. Stava preparando «Repubblica» e mi cercava come inviato. Però c'erano troppi lati di Scalfari che mi lasciavano perplesso. Eletto nel 1968 alla Camera dal Partito socialista, Eugenio si era gettato sull'estremismo. Da sostenitore acceso del Movimento studentesco, partecipava alle assemblee della Statale e marciava in testa ai cortei. Ne rammento uno del 1970 «contro la repressione» messa in atto dal governo di Mariano Rumor. Un rito di pura propaganda poiché il pio democristiano di Vicenza non appariva in grado di reprimere alcunché. Scalfari procedeva in prima fila, reggendo lo striscione d'obbligo. Era un bel signore aitante, ancora senza la barba e si difendeva dal gennaio di Milano con un magnifico tre quarti di montone, senza mostrare timore dei poliziotti pronti alla carica. Anche in quel caso, Eugenio portava «la testa come il Santissimo in processione», come diceva il suo amico di sempre, Carlo Caracciolo. Nessuno ricorda più la stagione gruppettara di Scalfari. Io sì e ancora oggi me ne domando il perché. Quando apparve il rapporto sugli estremisti di Milano, rossi e neri, scritto dal prefetto Libero Mazza, invece di riconoscere che diceva la verità Eugenio bollò Mazza con parole pesanti: «Il prefetto è uno sciocco che non capisce quanto accade, o è un fazioso che non vuole capire». La stessa disinvoltura Scalfari la rivelò nella campagna contro il commissario Luigi Calabresi, indicato a torto di essere il seviziatore e l'assassino dell'anarchico Giuseppe Pinelli. Nel giugno 1971, in calce all'accusa, comparvero sull'«Espresso» le firme di ottocento eccellenze della cultura e della politica di sinistra, compresa quella di Eugenio. E nel piccolo mondo del giornalismo italiano si sostenne che fosse stato lui a decidere quella nefandezza. Passò dell'altro tempo e nell'autunno del 1977 Ottone si dimise dal «Corriere». Nelle stanze di via Solferino si avvertivano strani umori che in seguito presero una forma inquietante: Licio Gelli e la sua Loggia massonica P2. Decisi di andarmene anch'io, insieme a Bernardo Valli. E con lui accettai il nuovo invito di Scalfari e di Caracciolo. Entrai a «Repubblica», senza immaginare che ci sarei rimasto per quattordici anni, dapprima da inviato e poi come uno dei due vicedirettori di Eugenio. Non rinnego quel tempo, anzi lo ritengo l'epoca più felice della mia maturità professionale. Ho vissuto e lavorato accanto a uno dei grandi giornalisti italiani. Ho scoperto i suoi difetti e riconosco ancora oggi le sue forti capacità. Compiere novant'anni e rimanere attivo, scrivere, ingaggiare polemiche, duellare con i nuovi potenti, non è affare di tutti. E benché le nostre strade siano ormai lontane, confesso che la figura di Eugenio da vecchio mi commuove, poiché contiene una parte di me stesso. Parecchi mesi fa, mi è capitato di vederlo a Roma. Stavo avviandomi verso Montecitorio quando ho notato Eugenio diretto a casa. Mi è parso un patriarca, la figura snella e ben eretta, l'aria di chi è sicuro del proprio carisma. Camminava a passi lenti, impugnando un bastone prezioso più simile a uno scettro che a un sostegno. Ho notato la sua barba, candida e ben curata. In quel momento mi sono rammentato che a «Repubblica» lo chiamavamo Barbapapà, un soprannome dettato da molta ammirazione. Senza Barbapapà, e senza Caracciolo scomparso nel dicembre 2008, «Repubblica» non sarebbe mai nata. E la politica italiana avrebbe avuto un corso diverso. Scalfari l'ha raccontata, giudicata e influenzata come nessun altro giornalista ha fatto dal 1976 a oggi. Per vent'anni da direttore e in seguito da editorialista, mentore, polemista. Nel nostro mestiere, resistere all'avanzata del tempo conservando la capacità di parlare a un pubblico vasto di lettori, è una qualità che ben pochi possiedono. Ecco la dote numero uno di Eugenio: non rifugiarsi nella vita privata, ma rimanere in piedi di fronte ad amici e avversari, senza timore di nessuno. Scalfari ci è riuscito perché continua a essere un primo della classe con un'autostima enorme, convinto di avere sempre ragione, al punto di non sopportare chi si azzarda a mettere in dubbio la sua assoluta perspicacia. E quando commette un errore e sbaglia una previsione, come accade a chiunque, rimuove tutto senza spiegare nulla. La stessa marmorea noncuranza mostra nel piegare i fatti, e la loro memoria, a vantaggio di se stesso. Sino al punto di alterare la verità. Gli capita di farlo spesso, confidando nell'ignoranza di chi lo ascolta quando lo vede in tivù o legge il suo vangelo domenicale su «Repubblica». Anche Scalfari si contraddice. Su questo versante, le testate che lo avversano si divertono a prenderlo in castagna. Ma lui considera la critiche un omaggio alla propria fama e ai suoi tanti successi. Il primo è di aver creato dal nulla, con Caracciolo, un giornale leader come «Repubblica». E di essere riuscito a farlo diventare la potenza di oggi. Un'impresa titanica, mai accaduta nell'Italia dal 1945 in poi. Scalfari poi voleva un quotidiano di sinistra ed è riuscito a costruirlo e ad affermarlo, distruggendo i fogli compagni di strada dei comunisti. Barbapapà voleva un giornale ibrido. Per metà aristocratico e per metà popolare, in grado di ospitare firme diverse e spesso in contrasto tra loro. Scalfari ci è riuscito mettendo in pratica la teoria del libertino, capace di contraddirsi, di mutare opinione. Quel prodigio oggi è finito, annientato dalla filosofia del giornale caserma che pervade la «Repubblica» di questi ultimi anni. Una fortezza inchiodata a un pensiero unico. Dove non vengono ammessi dubbi, dissensi, deviazioni. Ecco un errore autoritario al quale Scalfari non si è opposto, anzi ha contribuito a provocare. In base al principio che le grandi testate sono tali proprio perché parteggiano per una causa politica. La domanda è se nella temperie attuale, quando nessuno è più certo di nulla, un giornale-caserma sia utile ai lettori che lo acquistano. Se osserviamo la crisi profonda che investe anche «Repubblica», la risposta è no. Ma questo è un problema del direttore di oggi e dell'editore. Non di Scalfari. Barbapapà non si pone questo interrogativo. E non si macera nell'incertezza se deve spiegare chi siano i lettori di «Repubblica». Per lui sono una comunità di militanti, cresciuta lottando contro i nemici che, via via, Scalfari indicava: per primo Bettino Craxi e infine Silvio Berlusconi. Nel giugno 2012, alla richiesta di definire le diverse generazioni dei suoi tifosi, ha offerto una risposta secca: «Sono la sinistra italiana di oggi». Il problema è che a due anni da quel proclama, la sinistra italiana si è dissolta in dieci parrocchie diverse, sempre in lite fra di loro. Infine sono comparsi due leader, Matteo Renzi e Beppe Grillo, due mutanti atterrati da un pianeta alieno. A loro di Eugenio e dei suoi novant'anni non frega nulla: «Scalfari chi?». E forse stanno ridendo di quanti si affannano a fare di Barbapapà il nuovo Padreterno.  di Giampaolo Pansa

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