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Lamberto Dini intervistato da Perna: "Renzi? Arrogante di qualità, circondato da incapaci"

Andrea Tempestini
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Mancano il caminetto acceso e l'alano impettito, per il resto è come se mi trovassi in casa di un Lord nella Londra di mezzo secolo fa. Il signore dei luoghi, Lamberto Dini, è in completo scuro con gilè come c'era da aspettarsi. Non vedo però il mitico orologio da taschino che da direttore generale di Bankitalia gli aveva dato fama per l'abilità con cui lo roteava facendolo apparire e sparire. Pazienza. «Lieto di conoscerla e darmi l'occasione di parlare della situazione italiana. Ne parleremo, nevvero?», mi chiede l'ex premier. «Qui per questo», rispondo mentre sediamo nello studio con mobili d'antiquariato, libri e quadri. Su un tavolo, in cornici d'argento, una rassegna fotografica degli incontri memorabili che il mio ospite ottantatreenne ha avuto in giro per il mondo con incarichi vari. Una vita da Fregoli, quella di Dini: uomo del Fmi, di Bankitalia, ministro del Tesoro, degli Esteri, presidente del Consiglio, cose così. «Tengo a parlare dell'Italia perché conto che il messaggio arrivi al mio concittadino, Matteo Renzi. Benedetto ragazzo! Pare non si consigli con nessuno e neanche riceva i suoi ministri. Fa di testa sua, mentre dovrebbe prendere idee confrontandosi con gli opinion makers italiani e stranieri. Salvare l'Italia non è impresa da fare in solitaria», dice Dini con passione. L'attico su due piani in cui abita è in una zona pedonale del più ambito centro romano dove ogni rumore è spento. Posso quindi distintamente sentire che qualcuno scende silenziosamente la scala interna. È un maggiordomo in livrea e guanti bianchi che porta un vassoio col caffè, saluta con un cenno del capo e scompare. Un'atmosfera d'altri tempi che è la vita quotidiana di Dini. «Lei è ormai fuori da tutto -dico-. Ha concluso nel 2013 da senatore del centrodestra. In precedenza, però, era stato parlamentare del centrosinistra per tre legislature. È di destra o sinistra?». «Sono liberal democratico -risponde-. Ricorderà che quando nel '94 lasciai Banca d'Italia, lo feci per entrare nel primo governo Berlusconi come ministro del Tesoro. Poi, sempre Silvio, mi indicò quale premier quando il suo governo cadde, abbandonato dalla Lega. Solo dopo il conferimento dell'incarico da parte di Scalfaro, il centrodestra, per beghe interne, mi voltò le spalle. La sinistra invece mi votò responsabilmente la fiducia. Il voltafaccia fu, dunque, della destra. Poi, la mia collaborazione con D'Alema & Co. -io sempre su posizioni moderate, con Rinnovamento Italiano, la Margherita, ecc.- durò una dozzina d'anni. Per cinque, 1996-2001, fui ministro degli Esteri. L'entente con la sinistra si interruppe col secondo governo Prodi (2006-2008), troppo appiattito su Rifondazione comunista. Provai un tale disagio che gli votai la sfiducia. Ne seguì un chiarimento con Berlusconi, che negli anni aveva continuato a ribadire la nostra amicizia, e, con le elezioni 2008, tornai da dove ero venuto». «Un rientro a casa», dico. «Esatto», dice lui e allarga le braccia come Cristo in croce. Spalancamento che ripete spesso durante l'intervista ogni volta in cui vuole dire che la cosa è evidente. Dini ha una gestualità americana che tradisce i vent'anni trascorsi negli Usa cui deve anche l'accento tosco-yankee che gli è valso, per assonanza di birignao, il soprannome di Lambertow. «Come vive il declino italiano?», chiedo. «Molto male. A parte i nostri problemi, la crisi s'iscrive nell'irreversibile slittamento della forza economica da Occidente a Oriente. Basta guardarsi attorno: è un mare di made in Cina. Poi, c'è l'egoismo della Germania. Paese esportatore, ha un enorme surplus della bilancia dei pagamenti, ma frena sugli investimenti interni contribuendo alla depressione europea. E della sua stessa economia che, con un Pil allo 0,5, è al limite della deflazione». Uno squillo del telefono lo distrae nel mezzo dell'intemerata. Dini reagisce a mezza voce: «Oh chi è che rompe?» e con due battute liquida l'interlocutore. Per di più, Frau Merkel si impiccia troppo dei fatti nostri. «Merkel non ha una visione europeista. È succube del suo elettorato. Non è Helmut Kohl, vero europeo, che quando diceva qualcosa i tedeschi l'accettavano». Veniamo a noi. Si criticava tanto il Cav ma Mario Monti ha fatto peggio. «Ha sbagliato perché ha voluto risanare aumentando le tasse, senza limitare la spesa pubblica. Diceva che se avesse tagliato, il Parlamento non gli avrebbe approvato gli aggravi fiscali». Compiaceva la sinistra che dalla spesa ricava il consenso. «Monti, mondialmente conosciuto per la sua vanità, pensava al Colle e non voleva perdere simpatie. Poi ha fatto altri errori e si è giocato tutto. Chissà perché Napolitano l'ha fatto senatore a vita prima che dimostrasse le sue capacità». Enrico Letta? «Quando si vide che era lento nelle determinazioni, soprattutto nella riforma delle Istituzioni, il Quirinale gli ha preferito Renzi». Lei che pensa di Renzi? «Ha la necessaria carica emotiva e di carattere per fare le riforme. Mi dà speranza. Anche se ciò che ha fatto finora è deludente». Cado dalle nuvole. Di Renzi lei diceva: «Ragazzotto presuntuoso e impertinente, senz'arte né parte». «Che sia presuntuoso, lo ammette lui stesso. Ma è un arrogante di qualità. Tuttavia, come ha scritto Eugenio Scalfari, se una squadra senza leader non è bene, un leader senza squadra è peggio. È il caso di Renzi che ha messo al governo gente senza esperienza. Se avesse persone capaci, le riforme sarebbero a miglior punto». Quando parla di incapaci che intende? «Prenda la riforma della Pa del ministro Marianna Madia. Quando le fu chiesto di quanto avrebbe ridotto i costi della burocrazia, rispose: “Non è un mio problema, ma del ministro dell'Economia”. Una riforma della Pa o riduce le spese e il ruolo dello Stato o è il nulla». Pure Renzi non taglia per non perdere consensi? «La sua bussola è il consenso. Anche gli ottanta euro gli sono serviti a prendere voti. Quanto altro avremmo invece potuto fare con quei dieci miliardi? Ma sulle potenzialità di Renzi sono in sintonia con Berlusconi che lo appoggia. Quando si candidò sindaco, Silvio mi disse: “Quel ragazzo lo dobbiamo prendere noi”». Tra gli incapaci di Renzi mette anche Pier Carlo Padoan? «Nooo. Lui è un eccellente economista con un grande curriculum. Si è però trovato un premier molto ficcante e non so se riuscirà mai a imporre il suo punto di vista. Gli ottanta euro sono un'idea di Renzi, non sua. Finora ha fatto l'equilibrista con grande bravura». Che farebbe Dini al posto di Renzi e Padoan? «Tre mosse. Profonda riforma della Pa per ridurre la spesa corrente. A cominciare dalle Regioni che sono il disastro della spesa pubblica. I risparmi -almeno 40 miliardi- serviranno a una riduzione equivalente delle tasse su famiglie e imprese. Di seguito, un programma di privatizzazioni per diminuire il debito pubblico. Terzo, ma dipende dall'Ue, un grande piano di investimenti con emissione di Eurobond per almeno cinquecento miliardi». Uscire dall'euro? «Per l'amor di Dio. Un disastro da cui non ci risolleveremmo per trent'anni». Seri economisti però lo consigliano. «Sono degli imbecilli. Finiremmo tra i Paesi inaffidabili, senza credito e in misere condizioni. Dobbiamo restare nell'euro, ma da protagonisti, per rintuzzare il merkelismo». Il Cav è out? «Mai pensarlo. Sa di essere più capace degli altri in Fi. E non dà spazio. Fino alle prossime elezioni sarà il capo». Il patto con Renzi è un suicidio per Fi? «Se serve a fare le riforme, va bene. Renzi è un uomo di centro e non può essere lontano dalle idee di Berlusconi». Quale politico, anche del passato, sarebbe in grado di risollevarci? «C'è la carta Renzi, giochiamola». Come vede il nostro futuro? «L'Italia ha ancora grandissime risorse. Per farne dilagare le potenzialità ci vogliono riforme». Lei è un pensionato d'oro. E se finisse anche lei sul lastrico, dati i tempi? (ride) «Alla mia età non mi preoccupa. Molto più invece se penso a mia figlia e alle mie nipotine. A meno di un grande cambiamento. E l'Italia è capace di farlo». intervista di Giancarlo Perna

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