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Si chiama Grillo ma è un altro Di Pietro. Soltanto più pericoloso

Facci e Grillo

La ricetta del comico: sventolio di manette, qualunquismo, esasperazione delle piazze, ammiccamenti a sinistra. Proprio come Tonino, che però almeno era un uomo dello Stato

Andrea Tempestini
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  di Filippo Facci   È sparito Di Pietro ma ci resta il Parlamento più dipietrista di sempre, quello più manettaro ma anche quello più sfascista, avvelenatore di pozzi, sabotatore di ogni «dialogo» e di ogni baluardo di riferimento, proteso a inasprire ogni conflitto istituzionale e a delegittimare progressivamente ogni cosa. Di Pietro e Grillo hanno sempre avuto molto in comune - anche se altrettanto li divideva - e questo non soltanto in termini anaffettivi e malfidenti ed egocentrici: entrambi hanno sempre gridato «in galera» e però oggi, per farlo, non serve neanche più un paravento di carte giudiziarie, o un passato o un presente particolari come un Di Pietro o un Ingroia. Basta gridarlo e basta: Ruby o De Gregorio non importa, tanto è una rivoluzione e noi siamo tutti morti.      Giuseppe Piero Grillo è il nuovo Antonio Di Pietro (anche se l'ex magistrato, nel 1993, aveva addirittura la fiducia del 95 per cento degli italiani) e questo lo rende al tempo meno pericoloso e più pericoloso. Meno, perché privo della smisurata ed esistenziale ambizione dell'ex magistrato, un uomo disposto veramente a ogni cosa e che in parte ha tentato di farla. Più pericoloso, invece, perché privo di quell'infarinatura anche minima di senso istituzionale (Di Pietro è un ex poliziotto, ex funzionario, ex magistrato, insomma un uomo dello Stato) che viceversa fa di Beppe Grillo il perfetto archetipo dell'uomo qualunque.         Dal 2006 a oggi è difficile distinguere chi abbia imitato chi. Di Pietro e Grillo si ritrovarono in un'intersezione tra satira e politica e giornalismo (e forca) che fece rifiorire un neo-qualunquismo meno comico e più comiziante, cementato ovviamente dall'anti-berlusconismo (quello sempre) e che fece competere i due amiconi a chi la sparava più grossa e sempre più in alto. Di Pietro, eterno secondo, si mise a inseguire Grillo gridando che Berlusconi sarebbe caduto «come Saddam Hussein» dopo aver detto che era «come Hitler», «come Videla», «Nerone», «Mussolini», «Dracula» e tutto il campionario. Nel gennaio 2006 l'ex magistrato annunciò anche la nascita di un blog sulla falsariga di quello di Grillo (consulente: Gianroberto Casaleggio) mentre usciva il libro La casta che diveniva un manifesto di resurrezione: anche da qui nacque l'idea del «v-day», primo appuntamento per l'8 settembre 2007 a Bologna e in cento altre piazze italiane, una manifestazione che dapprima non fu chiara a nessuno ma dove si parlò di cacciare i condannati dal Parlamento, organizzare banchetti, fare e abrogare e ammanettare. Per Di Pietro era più che sufficiente, ci si buttò a pesce e infatti nel V-day fu il solo politico risparmiato. «È una persona per bene», diceva Grillo, «mi mette in ansia quando parla, ma poi dice le cose come vanno».  Di Pietro ai tempi era ministro delle Infrastrutture, mica un gruppettaro: ma inseguiva il vento grillino mettendo il cappellone sui referendum poi falliti («sono orgoglioso come rappresentante di una forza politica che si è adoperata per la validazione delle firme») e pavoneggiandosi a ogni occasione: tuonava contro il suo stesso governo («Ce l'hanno con me perché preso ho parte al V-Day») e accusava la presidenza della Camera di non aver messo in calendario una sua fantasmatica proposta di ineleggibilità dei parlamentari. Attaccava persino Romano Prodi: «Deve fare un passo indietro: la gente non ha più stima di questo governo... Ci vogliono facce nuove, aria nuova. I ministri sono troppi e inutili». Lui era ministro e stava leggendo il proprio epitaffio, ma non l'aveva capito e forse neanche Grillo, che andava alla Festa dei Valori. In realtà le distanze erano anche siderali: su molti temi, soprattutto ambientali, Grillo era imbevuto di cazzate alternative mentre Di Pietro non aveva nessuna posizione su niente: ma si poteva rimediare. Per imitare Grillo, Tonino scippò anche un'idea a Micromega e pompò un «No Cav day», una kermesse in Piazza Navona con l'amico comico che attaccò il capo dello Stato e Sabina Guzzanti che se la prese con il Papa. Un sondaggio dell'Espresso disse che Di Pietro era «il più attivo nell'opposizione a Berlusconi».  Walter Veltroni si sbracciava: «Di Pietro scelga se stare con Grillo e con Travaglio, la piazza che insulta». Aveva scelto eccome. Grillo aveva moltissimo in comune con lui: come lui aveva trasmutato il girotondismo e accolto pezzi di Pd, pezzi di Bertinotti, sinistrume vario, movimentismi, ambientalismi, pacifismi, forcaiolismi e - sperava - grillismi. Ma è Grillo che avrebbe assorbito lui: perché il comico, Grillo, era un Di Pietro senza la paccottiglia furbesca e maneggiona del dipietrese classico, senza la zavorra familistica e sbirrosa che l'ex poliziotto si portava dietro. Anche perché Di Pietro, in vent'anni di antipolitica, aveva fatto in tempo a inzupparsi nella politica: dunque Grillo non prendeva soldi pubblici, Di Pietro sì. Grillo non aveva figli e famigli in politica, Di Pietro sì. Grillo non avrebbe candidato inquisiti, Di Pietro sì. E poi Di Pietro aveva accumulato cinque mandati ed era in politica da 18 anni: era ben chiaro chi doveva sparire.     

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