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Romano Prodi, a 81 anni scala lo Stelvio in bicicletta

 Romano Prodi in bicicletta

L'ex premier fa una prodezza ciclistica. (Sulle prodezze politiche c'è da discutere...)

Francesco Specchia
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La “montagna di troppo” -come la chiamavano i poeti della roccia- ha ingoiato il professore.

Col fiato grosso, l’ansia del passista e il polpaccio dello scalatore, Romano Prodi, come il Fausto Coppi del patto di non belligeranza con Koblet nel ’53, come un Bartali in fuga o un Gimondi qualsiasi, ha stremato la sua bici sul passo dello Stelvio. Dietro la curva, a 275o metri d’altezza, il suo caschetto bianco su corpetto blue è apparso all’improvviso a tagliare il traguardo, mentre l’ex premier sembrava affondare i pedali nell’aria; e il volto paonazzo, la vecchiezza, gli acciacchi, tutti i suoi 81 anni si perdevano sul tachimetro impazzito. C’è qualcosa di metafisico, in tutto questo. A metà tra una scena della fantozziana Coppa ciclistica Cobram e l’airone che schiude le ali spuntando dalle cronache del Giro d’Italia di Orio Vergani, Romano Prodi ha regalato al mondo -ammettiamolo- una piccola prodezza. “Sono stanco, ma il respiro ha retto benissimo, Lo avevo già fatto trenta anni fa, da tutte e due le parti, ma ci tenevo a ritornare. E’ stata una giornata bellissima…”, ha commentato Romano il pedalatore. E lo è stata davvero, una giornata bellissima. Immolato alla causa benefica della Fondazione Maratona Alzheimer - l’ente che organizza la tradizionale marcia per i diritti degli ammalati della terribile malattia- Prodi ha donato i suoi chilometri percorsi. Che si aggiungeranno ai 700mila già totalizzati da podisti e camminatori fin dalla prima edizione della Maratona e contribuiranno a raggiungere l'obiettivo: “un milione di chilometri, un milione tanti quanti sono le persone malate di Alzheimer”. E fin qui sta bene. Lo Stelvio è un labirinto gentile ma traditore. Parte da 30 tornati e ne accumula via via 14, 20 e passa: sono curve che mozzano il respiro e che accarezzano una pendenza regolare dall’asfalto ruvido e il passato romanzesco, soprattutto nella parte altoatesina. Quella su cui s’è inerpicato Prodi, per inciso. Fin qui la bellezza della cronaca. Quando si passa al racconto della politica, però, le cose cambiano un po’.

Ti immagini che cosa sarebbe davvero successo se Romano avesse conquistato l’Italia come ha fatto con lo Stelvio. Se ci si pensa, Prodi, da pensionato, oggi, è quasi più gli scudi di quand’era politicamente in vita. Solo in questi giorni s’è pronunciato sul taglio dei parlamentari divincolandosi tra gli ossimori (“Il numero dei parlamentari è eccessivo, ma ecco perché voterò no al referendum”); ha sentenziato sul Covid; ha inaugurato una Summer School ispirata all’Ulivo; ha commentato le linee-guida sulla spesa di fondi europei evocando un armamentario economico molto colbertista; ha fatto balenare di aver abbandonato del tutto l’idea di sedersi al Quirinale (anche se…). E solo qualche mese prima, ai tempi del governo gialloverde, aveva evocato la dittatura del pensiero: “Ci troviamo infatti nel caso in cui chi ha avuto il mandato popolare pensa di avere diritto a fare o a dire qualunque cosa. Come se l’elezione portasse in dote la proprietà del Paese”, parlando di “conti impazziti” ma dimenticandosi di quella stessa espressione quando il governo -soppresso Salvini- s’era poi striato di rosso. E, in più, a Prodi, ad intervalli regolari, piace un sacco richiamare, con nonchalance, il leggendario progetto dell’Unione del 2005. La quale Unione, una formazione che si estendeva da Rutelli a Rifondazione Comunista, per l’appunto, non fu comunanza di virtù bensì spettrale accozzaglia di ideologie e interessi lobbystici che vagò senza meta nei labirinti del centrosinistra italiano al punto che lo stesso Fausto Bertinotti, nel 2008, accucciato, non le appiccò il fuoco avvolto nella sua sciarpa di cachemere.

Prodi ha spesso invocato, dalla pensione, “una politica economica da affiancare all’euro”, dimentico del fatto d’esser stato egli stesso il traghettatore della lira nell’euro ma senza corsetto di salvataggio; e di non essersi affatto battuto per cambiare quei criteri scellerati del trattato di Maastricht nei quali l’Italia non rientrava finendo quasi impiccata a quegli assurdi parametri economici; e di aver firmato, come premier, il famigerato «pacchetto Treu» che tanti lutti addusse ai precari italiani. Per non dire dei suoi antefatti in tema di politica industriale. Da presidente Iri, il placido boiardo dimentica sempre di come avesse svenduto “il patrimonio economico italiano a società private”; l’Iri era stato ridotto a un’immensa «spugna di finanza pubblica che negli anni 90 faceva concorrenza sleale sui mercati» , come scriveva l’economista Riccardo Gallo. Ecco. Se avesse performato da politico come fa ora da ciclista, se avesse scoperto ai tempi la sua vera vocazione forse il pedalatore ci avrebbe dato grandi soddisfazioni…

 

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