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Coronavirus, Silvio Garattini: "La situazione sta per sfuggire di mano. Ma c'è un farmaco che può battere il virus"

Pietro Senaldi
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«Il futuro del Covid-19 dipende da noi e da come ci comporteremo nei prossimi quattro-cinque mesi, fino a quando non arriverà il vaccino e non saranno sul mercato quei farmaci, ora in fase avanzata di studio, in grado di sconfiggere il virus. Possiamo riuscire ad arginarlo, mantenendo dei comportamenti accorti, o rischiare il ritorno di una diffusione esponenziale del morbo, se abbassiamo la guardia. Non è finita, siamo ancora in mezzo al guado, e l'aumento dei casi degli ultimi giorni è preoccupante, non si giustifica solo con il maggior numero di tamponi». Diagnosi di Silvio Garattini, presidente e fondatore dell'Istituto Farmacologico Mario Negri, scienziato di poche parole, ma chiare, soppesate e perciò definitive. «I comportamenti accorti sono poi sempre gli stessi: niente assembramenti, mantenere le distanze quando ci si incontra, lavarsi le mani spesso e girare con la mascherina, strumento semplice ma efficacissimo per evitare il contagio; ho il sospetto che all'inizio della pandemia sia stata fatta circolare la voce che non servivano solo perché non le avevamo ancora in magazzino».

 

Quel che dice, Garattini ovviamente fa. Per questo, benché il dialogo si svolga in una stanza grande quanto un appartamento e la scrivania che ci separa garantisca ampiamente il metro e mezzo di distanziamento, il professore indossa per tutto il tempo la mascherina, pretendendo dall'interlocutore lo stesso riguardo. «Vedo troppo rilassamento in giro. Non mi stupisce che nel Lazio e in altre regioni che sono state poco toccate dalla prima ondata siano aumentati i contagi. Qui in Lombardia abbiamo sofferto molto in primavera e lo si vede nei comportamenti della gente, siamo più attenti. L'altro giorno ero a Roma e i comportamenti della gente in strada mi hanno inquietato, manca la giusta prudenza. Non voglio fare dell'allarmismo, siamo distanti dalla situazione drammatica di marzo, la curva dei contagi sale lentamente, non c'è crescita esponenziale, ma avanti di questo passo è possibile che la trasmissione del virus acceleri improvvisamente e diventi fuori controllo. Non dimentichiamo l'esperienza dell'anno passato, il Covid 19 era in Italia già a novembre, è stato rinvenuto nelle acque fognarie, ma la situazione è diventata drammatica solo tre mesi dopo».

Professore, prevede anche lei un secondo picco per Natale?
«Sono un ricercatore, non un indovino. La verità è che di questo virus sappiamo ancora pochissimo e che l'unica cosa che vediamo attualmente con chiarezza è molta nebbia. Perché è in grado di uccidere e colpisce violentemente circa il 20% degli infetti ma è praticamente asintomatico sulla maggioranza dei contagiati? Perché a qualcuno attacca i reni, ad alcuni il cuore mentre per altri si ferma ai polmoni? Le altre epidemie finora sono state tutte differenti, i malati avevano più o meno gli stessi sintomi e reazioni più uniformi».

Questo virus non si conosce bene, ma sull'andamento delle epidemie c'è un'ampia letteratura: quando se ne andrà?
«Chi può dirlo? La Sars se n'è andata da sola, e non si è mai capito perché. Le altre epidemie sono state sconfitte dai vaccini o dall'immunità di gregge, dopo aver causato un buon numero di vittime».

Al Nord adesso ci si ammala meno che al Sud perché c'è un'immunità di gregge?
«Scientificamente è sbagliato dire questo. Certo, in Lombardia una percentuale molto più alta della popolazione è già venuta in contatto con il virus e questo comporta una sua ridotta circolazione».

Quindi non è vero che chi ha già preso il Corona poi si può riammalare?
«Ho sentito di casi di ricadute in Estremo Oriente, ma si tratta di pochi casi e tutti da verificare. Sono numeri che non hanno dignità scientifica, almeno su questo non farei dell'allarmismo».

Alcuni Paesi stanno chiudendo e anche in Italia c'è chi inizia a parlare di un possibile nuovo lockdown, per dirla come gli anglosassoni: lei cosa ne pensa?
«Non credo che si farà e confido che non si torni a una situazione che possa giustificarlo. Altra cosa è istituire delle zone rosse ben circoscritte laddove si sviluppino importanti focolai. Forse il più grande errore della gestione della prima ondata fu quando non venne imposta la zona rossa a Nembro e Alzano Lombardo».

La chiusura è una mossa preventiva, ma lei parlava anche di farmaci capaci di sconfiggere il virus
«Una terapia efficace per tutti ancora non c'è, anche il virus attacca le persone in maniera molto diversa l'una dall'altra. Le uniche cose certe sono che l'uso del desametazone, un derivato del cortisone, riduce del 30% la mortalità dei pazienti e che l'eparina è risolutiva in certi casi di infiammazione per liberare i capillari ostruiti e permettere al corpo di ossigenarsi».

Parlava anche di farmaci con una potenzialità anti-virale attualmente allo studio in fase avanzata: sarebbero risolutivi?
«Sono una trentina attualmente in fase di verifica. Si tratta di anticorpi monoclonali ricavati dal siero dei soggetti convalescenti. Sono stati identificati e alcuni si stanno rivelando molto attivi contro il virus. Confido che presto si possano produrre su scala industriale e siano pronti a fine anno. A Siena ci sta lavorando il professor Rino Rappuoli e pare ne abbia individuati tre».

Che differenza c'è rispetto al vaccino?
«Il vaccino è uno strumento preventivo, imprime una memoria biologica nel corpo e, in una grande percentuale dei casi, impedisce al virus di attaccarlo o di farlo in maniera violenta. Il farmaco invece viene somministrato ai soggetti malati e ha effetti guaritivi. Oltre agli anticorpi monoclonali di cui parlavo, sono in fase avanzata di studio anche parecchi medicinali antivirali che impediscono la proliferazione del Corona nelle persone già contagiate».

E del vaccino cosa ci può dire, professore?
«Per adesso le cose stanno andando bene. Ce ne sono ben sei vicini a completare la terza fase di sperimentazione e quindi plausibilmente disponibili da fine anno». Perché addirittura sei? «In realtà allo studio ce ne saranno almeno 120. I modi in cui vengono preparati sono molto diversi e si può pensare che riusciremo a ottenere un buon numero di vaccini attivi contro il virus, per poi arrivare a scegliere quello più efficace».
Una volta trovato il vaccino la battaglia sarà vinta?
«Per essere efficace un vaccino deve essere in grado di proteggere almeno il 50% delle persone a cui viene somministrato e non deve produrre effetti collaterali gravi. Al momento pare che i prodotti sperimentati diano questi risultati, poi resta l'incognita di quanto possa durare l'effetto protettivo della vaccinazione, ma questo lo sapremo solo con il tempo».

Nel frattempo ci vacciniamo contro l'influenza?
«Quello intanto serve per evitare i seimila morti che l'influenza causa ogni anno in Italia. Comunque studi internazionali dimostrano che l'antinfluenzale, per azione indiretta, diminuisce le probabilità di contrarre anche il Covid 19. Poiché poi il coronavirus ha gli stessi sintomi dell'influenza, il fatto di avere tanta gente vaccinata contro la febbre di stagione ha un'importante utilità pratica perché ci sono meno persone sulle quali sarà necessario fare una diagnosi differenziale. Non dimentichiamo che uno dei problemi più drammatici che abbiamo avuto durante la scorsa primavera è stata nell'individuare i malati tempestivamente».

In Italia abbiamo solo 17 milioni di dosi di vaccino antinfluenzale: basteranno?
«In anni normali si vaccina solo il 17% della popolazione, ma stavolta sarà diverso. Certo bisogna somministrarlo alle fasce deboli della popolazione, anziani, bimbi piccoli, cardiopatici, diabetici, categorie di lavoratori a rischio. Ma non dimentichiamo che l'antinfluenzale protegge solo il 50% dei vaccinati. In realtà io confido molto nel fatto che i comportamenti virtuosi della popolazione per impedire la diffusione del Covid, come indossare la mascherina, proteggano anche dall'influenza. Non è un caso se durante i mesi della chiusura abbiamo avuto poche altre malattie infettive».

Perché in Italia la situazione è attualmente più sotto controllo rispetto alla Francia e alla Spagna?
«Essenzialmente perché stiamo tenendo comportamenti più virtuosi. Le immagini dei camion carichi di bare hanno choccato il Paese. Siamo stati colpiti per primi, abbiamo avuto più paura degli altri e quindi siamo stati più disciplinati degli altri, pur essendo in realtà un popolo abbastanza indisciplinato».

E perché, Spagna a parte, in Europa abbiamo avuto più morti degli altri?
«Perché siamo un popolo più vecchio degli altri, specialmente in Lombardia e abbiamo dei comportamenti meno salutari: il 23% della popolazione ancora fuma e siamo più grassi della media europea. Ma soprattutto perché, anche se siamo ai primi posti nel mondo come durata della vita media, in realtà se si parla di vita sana, scendiamo al quindicesimo posto. In Italia per molti gli ultimi dieci anni di vita sono un calvario tra una patologia e l'altra ed è naturale che quando il coronavirus attacca anziani con situazioni cliniche compromesse, diventa letale».

Quindi il mito della sanità italiana va ridimensionato?
«Siamo un Paese che considera la ricerca una spesa anziché un investimento, e questo si riflette immediatamente sulla ricerca scientifica e quindi sulla salute. Se poi non stiamo attenti allo stile di vita, la frittata è fatta. Le cause principali della carneficina di marzo e aprile sono state l'assenza di mascherine, di strumenti protettivi e di linee guida». Il governo allora ha perso un mese di tempo? «Errori ne sono stati fatti, ma è facile parlare con il senno di poi». 

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