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Giorgio Armani e i 40 anni di Emporio: "Il successo? Una vita a modo mio, senza seguire le mode"

Daniela Mastromattei
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Giorgio Armani. Lo stilista e imprenditore tra i primi a intuire la gravità della crisi da Covid. Il primo a sfilare aporte chiuse durante la settimana della moda femminile a Milano nel febbraio del 2020, quando ancora la pandemia sembrava soltanto un problema cinese. Questa precoce consapevolezza, quasi una preveggenza (non a caso ha sempre anticipato mode e tendenze), è alla base del suo percorso fatto nei mesi successivi, dalla riorganizzazione degli spazi aziendali per affrontare le conseguenze sanitarie del virus al cambiamento delle sue abitudini e di chi lavora con lui. Smart working, mascherine e tamponi gratuiti fino agli orari flessibili per i dipendenti in presenza. Re Giorgio ha sempre avuto grande attenzione e rispetto per i suoi collaboratori, anche per questo è molto apprezzato. Alla ricetta del «divide et impera», di Filippo il Macedone, Re Giorgio preferisce l'armonia. E i risultati gli danno ragione. Il Gruppo, che nell'anno della pandemia ha registrato un fatturato di 3,3 miliardi di euro, in calo del 21 per cento rispetto al 2019, ha avviato la ripresa con un fatturato che segna un più 34 per cento. Grazie anche al successo di Emporio Armani: il marchio nato nel 1981, che ha aperto la strada allo street fashion, agli abiti sartoriali in denim, ai bomber costantemente aggiornati e ai materiali tecnici rubati al mondo sportivo, festeggia 40 anni. Per l'occasione super sfilata e una bellissima mostra, curata personalmente da Giorgio Armani al teatro Silos, dal titolo "The way we are" come la famosa canzone di Barbra Streisand.

Un anniversario importante. Com' è nato Emporio Armani? C'era bisogno di un marchio diretto ai giovani alla ricerca di uno stile?
«Era il momento di riconoscere che i giovani potevano essere parte del nascente culto della griffe, e che erano un nuovo pubblico cui rivolgersi. In quegli anni c'era fermento, spensieratezza, voglia di fare. I giovani guadagnavano la scena e una loro indipendenza, ma per l'abbigliamento l'offerta era scarsa. Il vuoto di mercato era evidente, e ho pensato di inserirmi. La risposta è stata immediata, travolgente e l'aquilotto divenne ben presto un simbolo in cui riconoscersi».
Un brand con cui permettersi qualche sperimentazione in più rispetto alla linea Giorgio Armani...
«Proprio così, l'ho immaginato come una linea con cui sperimentare, catturando le nuove tendenze e proponendo una moda democratica. Oggi rappresenta la declinazione trasversale e dinamica del mio concetto di stile e non ha perso lo spirito iniziale di individualità e aggregazione, di ricerca e libertà. Emporio è un marchio fortemente ancorato alla contemporaneità, che riflette l'energia e la vitalità delle metropoli, cogliendone il ritmo e proponendo un'esperienza fatta di abiti, accessori e idee».
Allora le critiche furono tante. Come rispondeva?
«Rispondevo come sempre: andando avanti per la mia strada. Mi fu detto che Emporio era una mossa azzardata, e che la democrazia del marchio si sarebbe sovrapposto al resto. Io non mi sono curato delle critiche: la diversificazione si è rivelata un piano di business opportuno perché più in sintonia con la frammentazione culturale e sociale che iniziava ad affermarsi proprio in quegli anni».
Armani ha rivoluzionato la moda e il costume nel mondo, sempre anticipando i tempi. Qual è il suo segreto?
«Molto semplice: osservo la realtà che mi sta intorno, anche attraverso gli occhi delle persone che mi sono vicine, per coglierne i più piccoli cambiamenti. Solo così si parla davvero al pubblico, e ci si evolve».
Il successo di Emporio è stato forse quello di piacere anche ai meno giovani (chi non ha indossato i jeans Armani) tant' è che poi sono diventati capi dalle linee precise, chic per persone di ogni età. E qual è il capo a cui è più legato?
«Non sono legato a un capo in particolare, ma a un'attitudine: libera, personale, metropolitana. Questo per me è Emporio, ed è per questo che non ha età».
Torniamo al suo aquilotto...
«Si tratta di un simbolo semplice, che ho disegnato per caso una sera mentre ero al telefono. Si ricorda e per questo mi piace l'aquila come sinonimo di libertà, di vedute ampie, di forza, di coraggio».
Quell'aquila che «vola alto e vede lontano», come ha ribadito spesso, oggi riesce ancora a orientarsi? Oppure ha dovuto cambiare rotta per perdersi in questo mondo così lontano dagli anni Ottanta e così cambiato negli ultimi tempi?
«Bisogna evolversi, e certo non ho paura di farlo. E l'aquila ha una vista acuta. Il pubblico di Emporio, oggi, è più ampio e trasversale, in accordo con i tempi che sono cambiati. Il marchio è diventato un brand contenitore, nel quale ciascuno può trovare qualcosa».
Il Covid, la pandemia, le restrizioni hanno cambiato anche il nostro approccio alla moda. Ha già annusato un nuovo modo di vestire? Che probabilmente sarà presentato nella prossima sfilata Emporio. Qualche anticipazione?
«C'è voglia di libertà, di comfort, di sicurezza. Ma c'è anche voglia di esuberanza, di tornare a vestire per divertirsi. Sono spinte opposte che trovo stimolanti».
Dalle prime fasi dell'emergenza Covid non ne ha sbagliata una: il primo a fare una maxi donazione agli ospedali, il primo a convertire i suoi stabilimenti per la produzione dei dispositivi di protezione, il primo ad aprire il dibattito sul senso della moda con una lettera aperta rivolta al settore. La pandemia come le ha cambiato vita?
«Mi ha insegnato che non si può pianificare troppo in anticipo. Non mi dispiace ammettere che sono un maniaco del controllo, ho sempre avuto bisogno di pianificare tutto con largo anticipo. Ma la pandemia ha sconvolto tutti i nostri piani. Personalmente, ho imparato a godermi di più le cose e a lavorare giorno per giorno, senza programmare troppo in anticipo. E cerco di stare il più possibile vicino ai miei cari, perché non si sa mai cosa porterà il futuro».
Le sfilate di Armani sono sempre lo specchio del momento storico che si vive e di quello che la gente desidera. I quarant' anni di Emporio lo dimostrano, racchiusi nella mostra al Silos...
«Una mostra manifesto, che ricapitola lo spirito di Emporio, la sua apertura e il suo dinamismo. Non una retrospettiva, quindi, perché la nostalgia non è parte della formula, ma una dichiarazione programmatica che unisce passato e futuro».
Che messaggio vuole far arrivare ai giovani che non hanno vissuto gli anni Ottanta e neanche i Novanta?
«Che vivere il momento è importante: esserci, essere presenti. Non a caso la mostra, come il numero speciale del Magazine, si intitola "The Way We Are" (il modo in cui siamo) ed è uno spaccato del momento».
Senza dimenticare il magazine che tornerà in edicola... diventerà un mensile?
«Per il momento è una pubblicazione speciale. Non aspirerei comunque al mensile, se dovessi tornare in edicola. Piuttosto, al semestrale, come abbiamo già fatto dal 1988 al 1998. Che futuro vede per la moda? «Abbiamo imparato che possiamo comunicare la moda in modo diverso. Quindi, per il futuro vedo sfilate reali insieme a un intrattenimento digitale per il pubblico che non partecipa agli show. E spero che siano più intime, come quelle di una volta».

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