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Papa Francesco, la critica di Galli della Loggia: "Armi e Putin, i suoi errori. Cosa c'è dietro questa ambiguità"

Fausto Carioti
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Nei tanti libri sull'identità italiana e la nostra idea di patria, e negli editoriali che da trent' anni scrive per il Corriere della Sera, la costante di Ernesto Galli della Loggia è il realismo, anche quando questo comporta giudizi duri. Le cose che dice in questa intervista non fanno eccezione.

Inevitabile iniziare da Vladimir Putin, professore. In queste settimane i paragoni storici sul presidente russo si sono sprecati. A lei chi ricorda?
«Nessuno. Non è mai capitato che un funzionario dei servizi segreti diventasse capo di un grande Stato europeo. Naturalmente, dato il ruolo che ricopre, Putin risente di tendenze ed idee radicate nella storia russa, e quello che fa e dice rientra in una certa tradizione del suo Paese. Ma come personaggio è un uomo nuovo».

Joe Biden lo ha definito «un macellaio» e ha detto che non può restare al potere. Nessun dubbio che questo sia ciò che pensa di Putin. Il punto è se il presidente degli Stati Uniti, potenza nucleare, possa dire ciò che pensa del suo corrispettivo russo. Ha sbagliato?
«Sì, credo proprio che abbia sbagliato. A meno che Biden non sappia, attraverso le fonti dell'intelligence statunitense, che nelle alte sfere russe è in atto un forte movimento per spodestare Putin. In tal caso le sue parole potrebbero aver avuto lo scopo di incoraggiare tale movimento. Dubito che sia così, però. La cosa più probabile è che le sue parole siano state dettate dall'emozione per l'incontro che aveva appena avuto con i profughi ucraini, e questo significa che dal punto di vista politico sono state uno sbaglio».

Lei non sembra credere all'ipotesi di una "primavera di Mosca", di una rivolta popolare che depone lo "zar", nella quale invece qualche osservatore occidentale spera.
«Escludo che possa esserci una rivolta popolare. Tra l'altro la maggioranza dei russi ignora quasi tutto di ciò che sta accadendo in Ucraina, inclusi le modalità dell'invasione e il numero dei soldati morti. Oggi Putin può essere spodestato solo dai vertici dell'esercito russo».

 

 

 

Che ragioni avrebbero?
«Hanno dovuto obbedire a una decisione politica, ma a nessun militare piace essere infilato in un'avventura senza sbocchi come si sta rivelando quella ucraina. Per questo gli unici che potrebbero fare un cambio della guardia al Cremlino sono loro, i capi dell'esercito, ovviamente d'intesa con altri poteri russi».

Lei ci crede?
«Non faccio previsioni, lì dentro ci sono troppe cose che ignoriamo completamente. Mi limito a fare ipotesi di scuola».

Veniamo all'Italia, professore. Gli elettori, secondo i sondaggi, hanno simpatia per la causa ucraina, ma sono contrari all'aumento delle spese militari. Non è contraddittorio, per un Paese che si proclama figlio della resistenza armata partigiana?
«Vecchia storia: le persone sono raggiunte da una telefonata, si trovano sottoposte a una domanda a bruciapelo e non possono stare lì a cavillare e sofisticare. Motivo per cui i sondaggi vanno sempre presi con molta cautela».

Proviamo a prenderli cautamente sul serio.
«È normale che di primo acchito la maggioranza degli elettori sia contraria ad aumentare le spese militari, perché appaiono soldi sottratti alla spesa sociale. Ma è chiaro che c'è una contraddizione con la volontà di sostenere la resistenza Ucraina, che per continuare a combattere ha bisogno delle armi che possiamo darle. È una delle contraddizioni tipiche dell'opinione pubblica, che spesso vuole la botte piena e la moglie ubriaca. Spetterebbe alla classe dirigente politica mettere d'accordo certe esigenze contraddittorie».

E finora come si è comportata la classe politica italiana?
«Un dato che merita attenzione è quello dei trecento parlamentari che si sono rifiutati di andare in aula a seguire l'intervento di Zelensky. Posso credere che qualcuno avesse problemi di famiglia odi altro tipo. Ma la grande maggioranza di loro - parliamoci chiaro - sono personaggi di secondo piano, sicuri di non essere rieletti, che stanno cercando una ricollocazione politica e finanziaria per il loro futuro. E siccome non da oggi, ma da anni, c'è una forte attività della Russia per "penetrare", diciamo così, i sistemi politici occidentali, allo scopo di acquistare "simpatie", credo che le due cose siano legate. Mi fermo qui, non voglio dire di più».

Fosse vero ciò che lei ipotizza sarebbe gravissimo. A parte gli interessi nascosti dei singoli, però, c'è un problema di linea ufficiale dei partiti e delle alleanze, e lo dimostrano le sofferenze di Enrico Letta e del suo "campo largo".
«Confesso che sul Pd mi ero illuso. Mi aspettavo che restasse sulla posizione espressa all'inizio da Letta, aderente alla linea di Draghi, che prevede il sostegno pieno all'Ucraina e il rispetto dell'impegno, assunto in sede Nato, di aumentare in tempi rapidi la spesa per il riarmo, portandola al 2% del Pil».

 

 

 

Non è andata proprio così.
«No. Di fronte alla presa di posizione di Conte, che ha dichiarato la propria indisponibilità, il Pd ha fatto una rapida riconversione su posizioni possibiliste e ha aperto la trattativa: non più due, ma cinque, sei anni... Ha ancora paura di essere diverso da come era in passato, di staccarsi dai vecchi dogmi e di affrontare una battaglia chiarificatrice all'interno della sinistra».

Un'occasione persa per Letta e i suoi, insomma.
«Sì. Inoltre credo che pesi molto la paura di andare da soli alle elezioni, senza i Cinque Stelle. La loro unica speranza di ottenere un successo che li porti al governo è legata all'alleanza col M5S».

Che ha deciso di trasformare l'ultimo anno di legislatura in una guerriglia continua contro Draghi.
«Le scelte di Conte fanno parte del grande capitolo della dissoluzione dei Cinque Stelle. Conte è alla testa di un movimento che ogni giorno perde consensi. Ha bisogno come l'aria che respira di costruirsi un ruolo, visto che, tra l'altro, lui personalmente non ne ha alcuno, non essendo nemmeno eletto in parlamento. Come molti politici superficiali, crede che avere un ruolo significhi avere una posizione eccentrica, di cui i giornali l'indomani parleranno. E siccome il suo contendente interno, Di Maio, è schierato su una posizione atlantista, Conte ha scelto di schierarsi in senso contrario».

Detta in questo modo, sembra che il capo politico del movimento sia Di Maio e che Conte sia il suo sfidante.
«Nei fatti, mi pare che le cose si avviino ad essere così. I Cinque Stelle cercano una nuova ragion d'essere, dato che tutte le loro identità precedenti, l'"uno vale uno" e le altre chiacchiere, si sono rivelate vane. Di Maio, con la sua azione governativa, sta cercando di costruire questa nuova piattaforma, ma si scontra con un gruppo di dissidenti, alla testa dei quali si è messo Conte. Mi sembra, però, che i parlamentari del movimento abbiano capito che, se vogliono essere rieletti, è dalla parte di Di Maio che debbono stare. Infatti, nella sostanza, è a lui che rispondono i gruppi in parlamento».

Se le cose stanno così, la scissione è inevitabile.

«Direi proprio di sì. E sbaglierò, ma credo proprio che Di Maio sia la carta vincente, perché stare al governo gli dà il ruolo e l'immagine che Conte non ha».

Chi si oppone alle spese militari, però, può dire di avere dalla propria parte il papa. Anche grazie a giganti come sant' Agostino, la Chiesa ha elaborato una dottrina della «guerra giusta», secondo la quale è moralmente lecito, in certe circostanze, l'uso delle armi. Ora Bergoglio ha espresso «vergogna» perla scelta di portare la spesa militare al 2% del Pil, che giudica «una pazzia». È una novità rispetto alla tradizione della Chiesa?

«Sì, è in parte una novità. Mi pare, peraltro, che le dichiarazioni del papa siano state molto contraddittorie. Dapprima ha preso posizioni filorusse; poi, forse anche a causa delle critiche che gli sono state mosse da dentro la Chiesa, ha cambiato posizione, iniziando a parlare di "aggressione", pur senza mai nominare la Russia. Alla fine sembra essersi attestato su una posizione di generica condanna della guerra e del riarmo».

Questo pesa sull'azione del Vaticano?

«Credo che le posizioni del papa mettano soprattutto in grave difficoltà la diplomazia vaticana. La quale ha una grande tradizione e notevole capacità, ma mi sembra che soffra molto di una guida così incerta e ambigua. Più in generale, penso che la leadership "politica" del papa, chiamiamola così, sia da tempo molto confusa, e alla fine sfoci in una pressoché assoluta irrilevanza politica». 

 

 

 

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