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Russia, la voce dal fronte: "I militari attendono l'atomica"

Nico Varasi
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Giornalista indipendente, 33 anni, autoinviatosi nel Donbass per raccontare la guerra sul fronte russo. Ce ne vogliono di attributi, e tanti.
«Quando la Russia nei primi giorni dello scorso anno iniziava ad ammassare le proprie truppe al confine ho deciso di andare a seguire la crisi di persona, ma pensavo che le cose si sarebbero risolte in altra maniera e in breve tempo. Non immaginavo che Mosca sarebbe andata dritta verso Kiev con i carri armati. Venni consigliato bene anche da alcuni giornalisti russi che avevo conosciuto in Armenia e in Siria».

Sì perché Luca Steinmann, italosvizzero di base a Milano, nonostante la sua età si può dire sia già un inviato di guerra veterano, e ora ha deciso di raccontare la sua ultima esperienza in un libro in uscita la prossima settimana.

Dove ti sei diretto inizialmente?
«Nel Donbass passando dalla Russia, io e il fotoreporter Gabriele Micalizzi. Poche ore dopo il nostro arrivo Mosca ha annunciato la chiusura delle frontiere, era il 19 febbraio. Il 24 hanno attaccato. Anche se in quella regione gli scontri armati erano già in corso. Io, Micalizzi e una giornalista francese siamo così diventati gli unici testimoni non russi dell’attacco dal loro fronte. Tutti gli altri se ne sono andati ma noi abbiamo deciso di rimanere, lo abbiamo considerato un’imperdibile opportunità professionale».


Come hai fatto a metterti al seguito delle truppe russe? Non credo sia stata una cosa semplice.
«Era una situazione delicata, eravamo gli unici occidentali tra i russi nel momento in cui l’Occidente diventava un nemico della Russia. Di conseguenza avevo tutti gli occhi puntati addosso, con la necessità peraltro di scrivere su media occidentali che utilizzano un metro molto diverso rispetto a quello che viene prescritto da Mosca. È stata dura all’inizio perché eravamo circondati da un velo di ostilità e freddezza, difficile soprattutto far capire loro che non ero lì per fare la propaganda di nessuno, né dei russi né degli ucraini. Ero lì per fare il mio mestiere. Allo stesso tempo però non essendoci altri reporter in giro godevamo di una certa libertà, non avevamo nessuno alle calcagna, anche se ovviamente leggevano tutto quello che pubblicavo. Col tempo, stando con i soldati, ho conquistato la fiducia di molti di loro, non di tutti, e ciò mi ha permesso di andare al fronte e seguire le operazioni militari. Tutto in maniera molto artigianale».

In che senso?
«Non c’erano certo permessi ufficiali ma serate a bere la vodka insieme. Così nasceva un rapporto di fiducia. Il giorno dopo ti ritrovavi con loro nel centro di Mariupol sotto le bombe».

Hai temuto per la tua vita, sei mai stato minacciato, hai trovato soldati che volevano farti la pelle?
«Sono stato espulso due volte dal Donbass, ma sono sempre riuscito a rientrare. La prima volta mi sono stati ritirati gli accrediti da giornalista e mi hanno consigliato di lasciare il territorio entro 24 ore. L’altra volta è stata dovuta, come dire, a un’incomprensione. Più che altro dalla volontà di alcuni burocrati militari russi di mostrare come potessero esercitare il proprio potere. Sono venuti a bussare alla camera d’albergo dove dormivo, mi hanno prelevato, messo su un pulmino e portato in Russia. Mi hanno scaricato in mezzo alla strada».

Senza visto né niente?
«Avevo ancora il visto turistico russo, quello che mi ha permesso di entrare nel Paese all’inizio».

Quanto tempo sei stato nel Donbass?
«Da febbraio 2022 fino a fine novembre del 2022. Effettivamente sono stati quasi 7 mesi, sia nel Donbass che nel sud dell’Ucraina, nella parte controllata dai russi».

Passiamo alla guerra, cosa hai visto?
«Una guerra che pensavo di poter vedere solo nei documentari sulla campagna di Russia dei primi anni 40, paradossalmente negli stessi territori dove tedeschi e italiani hanno combattuto contro le truppe sovietiche. Su questo si basa anche la propaganda di Mosca secondo cui c’è una continuità tra i combattimenti di allora contro i nazifascisti e quelli di oggi contro i “nazisti” ucraini. Una guerra di posizione, di trincea in trincea, nel fango, nella neve, al freddo, scontri uomo a uomo tra soldati che parlano la stessa lingua, hanno gli stessi cognomi e di cui possono essere benissimo parenti. Perché questa prima di tutto è una guerra civile con scontri devastanti nelle città, come a Mariupol o a Severodonetsk, dove per mesi ci si è ammazzati per le strade, nelle case, nei cortili. Mentre i civili si riparavano in cantina».

Che impressione hai avuto dei soldati russi?
«Ho trovato persone comuni, semplici cittadini. Non ho trovato soldati particolarmente demotivati. Certo la guerra non piace a nessuno ma non ho assistito a scene di ammutinamenti, fughe o cose del genere. Ho trovato spesso soldati che si lamentavano del loro equipaggiamento e delle comunicazioni tra loro e i comandi. Quello sì».

Parli anche di armi?
«Gran parte dell’equipaggiamento in dotazione all’esercito russo risale alle riserve sovietiche. Ho visto più volte carri armati che mi dicevano essere già stati utilizzati durante la guerra in Afghanistan degli anni ‘80».


Sono quelli rimasti impantanati alle porte di Kiev...
«Non sono un esperto militare ma credo di sì, e a proposito di quella carneficina devo dire, come mi hanno confermato molti soldati, che gli ordini erano: andate a Kiev e l’esercito ucraino si sfalderà come neve al sole, si scanserà. Non lo hanno fatto, anzi, hanno utilizzato armi micidiali come i droni turchi Bayraktar che hanno avuto gioco facile contro una colonna di carri lenta e scoperta. Alcuni soldati mi hanno detto di aver avuto nei loro zaini già pronte le divise da parata».

Quindi non si aspettavano la resistenza ucraina?
«Assolutamente no. Ho parlato anche con quelli della Wagner che mi hanno confermato che l’esercito ucraino è ben equipaggiato, preparato e determinato.
Ben diverso da quello del 2014».

Hai avuto a che fare anche con quelli della Wagner?
«Sono stato al fronte con loro intorno alla città di Bakhmut. Sono un altro esercito, ben equipaggiato, composto di gente che vive combattendo, con grande esperienza».

Eroici o feroci?
«La maggior parte sono ex soldati dell’esercito russo. A differenza delle truppe regolari raramente li ho sentiti insultare gli ucraini o parlare male di loro. Li definiscono i “nemici” e basta. Sono più distaccati, gente che ha deciso di combattere per professione e che lo fa nel Donbass come in tante altre parti del mondo».

Sei stato testimone di atrocità, esecuzioni sommarie, torture?
«Ho visto città come Mariupol e Volovakha circondate e assediate dai russi, lastricate di cadaveri e rase al suolo dalle bombe. Ho vissuto i bombardamenti sui civili nella città di Donetsk, in questo caso effettuati dall’esercito ucraino. Ho visto cadaveri di soldati colpiti alla testa, ma è impossibile dire se si sia trattato di proiettili odi schegge che li hanno colpiti a seguito delle esplosioni».

Hai intenzione di tornare?
«Sì, credo sia importante raccontare anche il lato della guerra che siamo in così pochi a raccontare».

Come finirà?
«Ho l’impressione che per gli ucraini sarà molto molto difficile riconquistare i territori del Donbass che da otto anni sono sotto il controllo dei russi e dei filorussi, perché sebbene non sia vero che tutta la popolazione del Donbass è filorussa è evidente che, coi russi lì da otto anni, chi non voleva vivere sotto di loro ha avuto tutto il tempo per andarsene. Chi è rimasto oggi è lì per convinzione, convenienza e interesse. Soprattutto dopo aver vissuto questi mesi di bombardamenti ucraini da quelle parti Kiev troverebbe una marcata ostilità sociale. Questo discorso non vale però per i territori conquistati dopo il 24 febbraio, sia del Donbass che del sud dell'Ucraina, dove la popolazione è spesso divisa tra chi è pro e chi è contro Mosca. Nel sud dell’Ucraina in particolare non sono pochi gli atti di opposizione alla presenza russa. Li si sono sviluppati addirittura dei movimenti armati filo-ucraini».

Cosa dicono i soldati russi delle armi nucleari?
«Preoccupati come tutti di una possibile escalation nucleare. Sembra che a Mosca abbiano preso seriamente in considerazione l’utilizzo di quelle tattiche, questo è quello che si afferma al fronte. Io stesso l’ultima volta sono tornato in Donbass con le pastiglie allo iodio».

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