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Galli Della Loggia: "I miti della sinistra cadono uno a uno. E Meloni..."

Pietro Senaldi
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«L’Italia non ha mai avuto un partito conservatore perché è una nazione nata da quella autentica rivoluzione che fu il Risorgimento, e perché le forze eterogenee che avevano fatto una tale rivoluzione si convinsero che fosse necessario restare sempre unite per difendere le istituzioni del nuovo Stato, insidiate da destra e da sinistra, e quindi non trovarono mai il modo di dividersi tra conservatori da un lato e socialisti dall’altro. Il risultato fu il trasformismo e la ricerca permanente della “via di mezzo”, due costanti della nostra vita politica insieme a un deposito se si vuole anche inconsapevole di progressismo presente dappertutto».

Rosi Bindi, per soffocare in culla il partito conservatore, ha dichiarato che con la Resistenza gli italiani hanno detto no non solo al fascismo ma anche allo Stato liberale che avrebbe prodotto prima la Grande Guerra e poi il regime...
«Come spesso i politici, la Bindi parla a braccio senza avere una conoscenza vera di niente. Le cose sono assai più complesse. Dal 1860 al 1914 lo Stato liberale rovesciò l’Italia come un calzino, cambiò tutto. Quanto ai rapporti effettivi, molti e profondi, che esistono tra l’Italia repubblicana e quella prima liberale e poi fascista, anche a livello di sistema politico, esiste una bibliografia che credo Rosi Bindi neppure immagina. La politica italiana è stata sempre direi istintivamente orientata nel suo complesso al cambiamento e allo statalismo, non certo ad un vero conservatorismo. Anche per ragioni oggettive. E pure oggi il partito conservatore, se mai ci sarà, dovrà cambiare un sacco di cose, a cominciare dallo Stato, dal suo apparato e dal suo funzionamento. E questa sarebbe una rivoluzione davvero epocale».

Quante probabilità gli dà?
«Le previsioni sono fatte per essere smentite. Dico 50 e 50».

Un conservatore che rivoluziona però non si è mai visto...
«Dipende dall’accezione che si dà al termine e qui il discorso, specie in termini storici, si farebbe molto lungo. Io penso che del passato vada conservato ben poco, se non alcuni valori e istituzioni fondamentali. Che però non si tratta di restaurare o difendere alla morte ma semmai riportare a una nuova vita e magari in forme nuove, attraverso prima di tutto una diversa narrazione, un’analisi del presente che smentisca il racconto progressista e convenzionale della realtà, secondo il quale ogni cambiamento, ogni rottura con il passato sono sempre un fatto comunque positivo. Da molto tempo mi sembra che ciò non sia più vero».

Lei concepisce il potenziale partito conservatore italiano essenzialmente come un’antitesi alla sinistra e alla sua narrazione?
«Viviamo una fase di grande incertezza e paura per il futuro. I miti di progresso evocati dalla sinistra stanno cadendo a uno a uno. La narrazione che il cambiamento sia per forza positivo e non possa che migliorare la condizione di vita delle persone ha perso credibilità. Oggila massa dei cittadini chiede sempre più protezione allo Stato e per questo si è aperto uno spazio per il partito conservatore. Sa chi è stato il primo a introdurre misure di protezione sociale in Europa? Un signore che si chiamava Bismarck...».

Da dove deve partire la nuova narrazione conservatrice?
«Da un’analisi del presente realistica, quindi spietata e drammatica. Da qui bisogna partire per affermare la necessità di difendere tutto ciò che va difeso del presente vitale che abbiamo ereditato dal passato. È inutile blaterare e perdersi nel ricordo del bel mondo che fu (se poi fu davvero così bello...). Bisogna spiegare bene alla gente quel che sta succedendo oggi e quello che molto probabilmente succederà domani se non si difendono certi valori e certe istituzioni».

Gli italiani sono pronti a sentirsi dire che serve una cura da cavallo?
«Non lo so, ma i veri leader non si fanno domande di questo tipo. Procedono per la loro strada cercando di spiegarla ai cittadini. Il politico che si chiede a ogni mossa che fa se gli porta voti o glieli leva non sarà mai uno statista».

«Perché una posizione conservatrice appare in Italia sempre fautrice di un che di retrivo e anche la difesa di valori pur meritevoli, come Dio, Patria e Famiglia, mostra sempre un che di goffo e stantio?» si chiedeva all’indomani del 25 aprile Ernesto Galli della Loggia dalle colonne del Corriere della Sera, del quale è tra gli editorialisti principi. La risposta, secondo lo storico, che è anche un profondo conoscitore dei meccanismi dell’economia e della comunicazione contemporanea, è «perché da noi è dominante una narrazione d’area sinistra e cattolica che esalta le magnifiche sorti progressive ma che ora dimostra i propri punti deboli». Sui quali appunto il partito conservatore dovrebbe picchiare. «Ci sono principi come l’efficienza della Pubblica Amministrazione, il merito nella scuola, la centralità della difesa degli interessi nazionali e finanche dei confini, l’importanza di essere autonomi nei fattori di produzione e di avere difese commerciali, la riscoperta del valore della naturalità biologica minacciata da teorie che azzerano le barriere genetiche che sembrano la risposta a un’angoscia crescente» spiega il professore emerito di Storia Contemporanea dell’Istituto Italiano di Scienze Umane concludendo che «il momento è propizio perché i nodi drammatici del presente sono sotto gli occhi di tutti; certo, per farlo devi avere qualità, idee, libri letti».

Fratelli d’Italia e il governo fanno bene dunque a portare avanti le battaglie identitarie che spesso sono state criticate dall’opposizione?
«Parlo in generale: le battaglie identitarie sarebbe meglio farle in maniera maggiormente argomentata e inquadrarle in un discorso complessivo sul drammatico momento storico che stiamo vivendo. Fatte episodicamente come voci dal sen fuggite rischiano sempre di suonare come provocazioni o recriminazioni nostalgiche».

Ma le battaglie troppo identitarie, a destra come a sinistra, non restringono gli spazi di crescita anziché allargare gli orizzonti di un partito, e quindi il potenziale consenso?
«Non credo. Perché la gente voti un partito piuttosto che un altro resta un grande mistero ma l’identità è importante. Certo, sbagli quando insisti su concetti che ti fanno apparire come una conventicola piuttosto che un grande partito, ma tre o quattro orientamenti di fondo vanno trovati perché devi essere chiaro e riconoscibile. Poi, siccome non puoi illuderti che tutti la pensino allo stesso modo, devi essere anche capace di presentarti comunque come un partito “aperto”».

Ci vorrebbe uno storytelling di stile renziano?
«Non mi pare l’esempio corretto. Renzi aveva avuto intuizioni anche giuste nel referendum che ne ha sancito la fine della sua avventura a Palazzo Chigi ma ha difettato proprio nello spiegare i motivi per cui gli italiani avrebbero dovuto votare le sue proposte, che ai più invece sono sembrate solo funzionali all’accrescimento del suo ruolo personale. Affrontare la Costituzione, con tutto quello di mitico e retorico che si porta appresso, significa scalare l’Everest della politica, devi spiegare bene».

Quindi per la Meloni sarebbe meglio archiviare le velleità riformatrici e il disegno presidenzialista?
«Presidenzialismo è una parola che copre realtà e soluzioni anche molto diverse. Io mi accontenterei di un deciso rafforzamento dell’esecutivo, non mi interessa ottenuto come. Anche qui bisogna sapere spiegare ad esempio che oggi praticamente il Parlamento è ormai un’istituzione paralizzata, priva di qualunque potere effettivo di legiferare e deputata solo ad approvare o meno le proposte di legge del governo. Se la Meloni vuole cambiare le istituzioni deve sostenere le sue tesi con analisi adeguate; e comunque non sarà facile».

Lei ha capito come mai la Meloni in tre anni è passata dall’irrilevanza a vincere le elezioni?
«Un po’ perché rappresentava l’ultima carta da provare dopo averle tentate tutte. Poi perché come donna offriva un’immagine tranquillizzante rispetto alle accuse di fascismo su cui la sinistra ha giocato la campagna elettorale. Accuse che, confrontate con l’immagine della Meloni, mi pare che suonassero abbastanza ridicole. Infine – ma in misura rilevante - perché, come le dicevo, sempre più italiani hanno la percezione che la narrazione progressista faccia acqua e che ci sia bisogno di proposte nuove».

Se pensiamo all’emiciclo parlamentare, sembra che con l’idea del partito conservatore la destra si espanda sempre più verso il centro e che il Pd tenda sempre più a schiacciarsi a sinistra, con M5S pronto a mangiargli seggi...
«In questo ragionamento io non parlerei di Pd ma del partito della Schlein».

In che senso?
«Il Pd in realtà aveva eletto Bonaccini come leader. Poi, siccome ha deciso di sottoporre la sua scelta a un plebiscito aperto in pratica a tutti, la Schlein è uscita come segretaria».

L’ha stupita?
«Non mi stupisce che ci siano un milione di italiani che pensano che l’Ucraina non vada difesa, che la pace sia dietro l’angolo e il mondo dovrebbe essere tutto fluido. Trovo però bizzarro che il Pd si sia affidato a loro, e conseguentemente penso che nel partito si aprirà prima o poi una crisi grave, delle quale si vedono già le avvisaglie. Se la Schlein manterrà fede alla sua linea, quelle singole defezioni che già si registrano diventeranno un esodo».

Ma se si apre un buco nella rappresentanza moderata perché, anziché la Meloni, non dovrebbe giovarsene il centro, non necessariamente di Renzi o Calenda?
«Non bisogna farsi ipnotizzare dalle etichette. In Fdi c’è moltissimo elettorato di centro. Il centro esiste come un’effettiva posizione politica solo se sia la sinistra sia la destra si attestano su posizioni molto pronunciate in senso radicale. Ma se la Meloni riesce a trasformare il suo partito in una destra moderata, liberale e conservatrice, e la Schlein si arrocca a sinistra, mi sembra chiaro chi delle due si accaparrerà i voti del cosiddetto centro».

Mi sembra che con la sua politica internazionale il premier sia riuscito a strapparsi di dosso l’etichetta di sovranista che le aveva affibbiato la sinistra per presentarsi piuttosto come patriota, come ha sempre voluto...
«Sì. L’opposizione non perde occasione per collegarla a Orbàn, ai polacchi e agli spagnoli di Vox, ma se le riesce l’operazione di allacciare i rapporti con il Ppe, e magari addirittura costruire una nuova maggioranza a Bruxelles, con un asse tra popolari e conservatori, l’etichetta di sovranista sparirà del tutto. Il suo asso nella manica al momento mi pare il rapporto privilegiato con gli Stati Uniti. Si parla tanto di Meloni filo-atlantista in Ucraina ma non viene dato abbastanza rilievo al fatto che dopo l’estate la portaerei Cavour andrà a pattugliare il Pacifico, non so se anche il Mar Cinese meridionale attorno a Taiwan. Questa forma di collaborazione con l’apparato militare statunitense al di fuori della Nato è una grande operazione politica».

Con il viaggio a Londra, dove è stata accolta con tutti gli onori, la Meloni si candida a sostituire la Gran Bretagna come membro “americano” nella Ue?
«Non mi spingerei a dire tanto. Di fatto l’Inghilterra stava nell’Europa per immobilizzarla, anche se come si è visto dopo l’addio di Londra la Ue è capace di farsi male da sola. Per ragioni storiche, la Gran Bretagna ha rapporti con Washington che Roma non potrà mai avere. Il viaggio conferma però che il nostro governo può contare sull’appoggio convinto non solo dei democratici Usa ma in generale anche dei conservatori del mondo anglosassone».

Cosa può favorire e cosa può sabotare il piano della Meloni di fare un partito conservatore?
«Un successo diplomatico nell’Unione Europea, con l’asse tra conservatori e popolari, e provvedimenti di governo efficaci la aiuterebbero molto. La danneggiano invece comportamenti sbagliati, come le discussioni in conferenza stampa con i giornalisti che abbiamo visto a Cutro, o le dichiarazioni avventate e che guardano indietro da parte della sua classe dirigente, oltre naturalmente eventuali fallimenti di governo. Anche se io penso che l’ostacolo più grande al partito conservatore sia la leadership di Salvini».

Perché?
«Perché se l’ipotesi partito conservatore si accreditasse a quel punto o la Lega strappa e si butta a destra - ma andando di sicuro incontro a una scissione con molti che non seguirebbero il leader- o sarebbe destinata a rivestire un ruolo secondario, e questo Salvini non credo lo accetterebbe».

Per ora filano d’amore e d’accordo...
«Sì, Salvini sta cercando di cambiare la propria immagine. È diventato un leader del darsi da fare anziché del parlare sempre e comunque. Se gli riuscirà almeno di avviare concretamente il Ponte sullo Stretto la sua figura ne guadagnerà parecchio».

Con il partito conservatore cadrebbe anche la pregiudiziale antifascista nei confronti del premier...
«Ma nessuno in Italia crede che la Meloni sia fascista, neppure la sinistra, che infatti le rimprovera non già questo bensì il non dichiararsi antifascista. Sono due cose molto diverse».

E perché non lo fa e chiude la partita per sempre?
“Le converrebbe dichiararsi antifascista ma capisco che ritenga di non poterlo fare. Un premier non si può fare dettare le parole dall’opposizione che ha sconfitto e nessuno poi può usare il linguaggio dell’avversario, significherebbe riconoscere che ha ragione. Sono convinto che Giorgio Napolitano smise di essere comunista e divenne un socialdemocratico fin dagli anni ‘70 del secolo scorso. Ma sono certo che se alla vigilia di essere eletto Presidente della Repubblica qualcuno gli avesse chiesto di dichiararsi anticomunista lo avrebbe giustamente mandato al diavolo».

La Meloni non potrebbe inserire in Costituzione il concetto che la Repubblica italiana è democratica, antifascista e anticomunista, e chiudere la vicenda?
«Pessimo consiglio, partirebbe una canea mai vista. La mossa sarebbe troppo audace e poi una Costituzione deve proclamare i valori che incarna non quelli che osteggia».

Ma allora la Costituzione non è neanche antifascista, tant’è che letteralmente la parola manca?
«Le parole fascismo e antifascismo oggi non hanno più nessuna relazione con il loro significato originario. Sono termini per marcare differenze e aggredire l’avversario. E lo stesso vale per la parola Resistenza, che oggi è usata per polemizzare con la destra e tenerla all’angolo mentre la Resistenza vera era tutt’altro».

Vedremo mai un 25 aprile non divisivo?
«No, perché non si vuole che non sia divisivo».

Fa comodo a tutti che sia così?
«Be’ a tutti no, direi. Cambiare significato alle parole fascismo e resistenza ha avuto l’effetto di impedire ogni analisi storica su cosa siano stati l’uno e l’altra e quindi di rendere impossibile qualsiasi cosa assomigli a una fine della rissa. Ormai ho perso ogni speranza e poi sull’argomento ho già detto tutto quello che avevo da dire». 

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