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Antonio Di Pietro, Vittorio Feltri: "I 3 cadaveri dietro al muro. Diede la notizia a me..."

 Antonio Di Pietro

Vittorio Feltri
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Ho conosciuto Antonio Di Pietro nel 1983: io ero direttore di “Bergamo Oggi”, lui era Sostituto Procuratore nella mia città. Di Pietro è sempre stato un personaggio. Di origini molisane, è nato a Montenero di Bisaccia, ha modi abbastanza burini ed è arrivato alla magistratura dopo una disparata serie di lavori: è stato operaio in una segheria, lucidatore in un’azienda metalmeccanica in Germania. Infine, dopo la laurea in Giurisprudenza, è stato commissario di Polizia e poi responsabile di un distretto alla Questura di Milano. Insomma, Di Pietro è arrivato a Palazzo di giustizia a forza di braccia, facendo uno a uno tutti gli scalini. Forse per questo, in un ambiente snob come quello delle toghe, i colleghi lo detestavano, sostenevano che fosse inadeguato. Ma si sbagliavano. Mi sono detto: «Io divento suo amico».

Lui era stato abbandonato da tutti e in me aveva trovato una sponda, un giornalista che lo prendeva in considerazione, così ha cominciato a darmi notizie interessanti. Ricordo un fatto di cronaca eclatante, a quarant’anni di distanza ancora se lo ricordano tutti: il caso del mostro di Leffe, un piccolo Comune bergamasco della Val Seriana. Un bancario del paese, Giovanni Bergamaschi, aveva ucciso la suocera, la moglie e la figlia.

La suocera, Annunciata Brignoli, l’aveva ammazzata nel 1978 e l’aveva sepolta sul Monte Croce, mentre tre anni dopo era toccato alla moglie Giannina Pezzoli e alla figlia Aurora di quattro anni, che poi l’uomo aveva murato dietro una parete eretta appositamente nel sottoscala di casa. Bergamaschi se n’era poi andato in Germania e per anni aveva inviato a casa cartoline falsificando la firma della moglie e della figlia, lasciando intendere che tutta la famiglia era emigrata e viveva là felicemente.

 

 

GLI OMICIDI - I tre omicidi furono scoperti solo il 13 febbraio del 1984: nel paese si parlava della vicenda, ma la popolazione era sospettosa, Annunciata Brignoli non si vedeva più da anni, era difficile ricostruire i fatti. Di Pietro seguì il caso e andò a perquisire la villetta della famiglia scomparsa: c’erano tracce di sangue sulla scala ma si accorse che le gocce si interrompevano nel sottoscala, che era stato murato. Notò subito che la parete era stata tirata su malamente, di fretta. Bussò e sentì che dietro suonava il vuoto. Gli agenti sfondarono a picconate la parete e trovarono due sacchi dell’immondizia, dentro i quali si trovavano i corpi della moglie e della figlia di Bergamaschi.

Di Pietro diede la notizia solo a me. Mandai un cronista a Leffe, ma al tempo in provincia non si era abituati a trattare fatti di questo rilievo, così quando tornò scrisse un pezzo, me lo portò e io mi accorsi che era un articolo breve, nel quale non dava valore alla vicenda: gli tirai dietro la mia Lettera 22 e mi misi a riscrivere di mio pugno la storia. Facemmo un titolone in prima pagina e il giorno successivo andammo in Val Seriana con i tir pieni di giornali, in edicola non se ne trovava più una copia: Bergamo è piccola, se capita qualche cosa nei paesi è come se succedesse in città e la provincia vibra subito per i fatti di sangue, perché le persone si conoscono o sanno per sentito dire, una notizia del genere chi non la legge?

Due settimane dopo mi chiamò Gian Antonio Stella, che era stato mio collega al Corriere della Sera: mi diede la notizia che stavano arrestando Bergamaschi a Roma, alla stazione Termini, mentre si recava a trovare il fratello, docente universitario. Lo scongiurai di scrivermi trenta righe, dovetti insistere perché lui lavorava ancora per il Corriere. Alla fine produsse le trenta righe che volevo e io le pubblicai: di nuovo fui l’unico a Bergamo ad aver pubblicato l’avvenuto arresto e, con mio sommo godimento, L’Eco di Bergamo bucò la notizia. Di nuovo vendemmo tutto il vendibile. Mi telefonò il direttore dell’Eco, monsignor Andrea Spada, e mi disse: «Te Vittorio, quando te ne vai fora da i bal? Te me fe diventà mat». Non ne poteva più di avermi al giornale concorrente.

Bergamaschi ammise tutto, fece ritrovare il corpo della suocera che aveva seppellito in montagna, confessò di aver ucciso la moglie perché lei aveva sospetti sulla morte della madre e di aver ucciso anche la figlia perché sarebbe stata testimone. Poi si era trasferito in Germania Est, dove era rimasto per oltre due anni. «Quel caso resta l’emblema delle indagini tradizionali», racconterà poi Di Pietro, «Oggi dominano gli algoritmi, allora invece era fondamentale l’intuito. Fu quella la chiave di tutto». L’ex bancario scontò dieci anni in un manicomio giudiziario, come persona «incapace di intendere e di volere».

La mia strada incrociò di nuovo quella di Di Pietro quando lui stava lavorando nel pool di Mani Pulite, era stato traferito alla Procura di Milano e io ero direttore dell’Indipendente. Mi fece chiamare da comuni amici di Bergamo e disse che avrebbe voluto rilasciarmi un’intervista. Mi precipitai al quarto piano del palazzo di Giustizia, era il 5 giugno del 1992: Tonino era già un eroe popolare, l’angelo sterminatore di Tangentopoli, un “marchio” il cui valore venne valutato, secondo Gavino Sanna, al tempo uno dei massimi esperti pubblicitari, dieci miliardi di lire.

TANGENTOPOLI - Di Pietro era adorato dall’opinione pubblica, tra scritte sui muri (“Forza Di Pietro”, “Signore, dacci un Di Pietro”), striscioni (“Di Pietro sei meglio di Pelé”) e poesie di Alda Merini (“Conosce benissimo Di Pietro/ le cose vinte dalla nostra Italia”). Era adorato pure dai giornalisti della cronaca giudiziaria milanese, che gli affibbiarono decine di soprannomi: “Belva”, “Zanzone”, “Padrepio”, “La Madonna”, “Dio”, “L’Onnipotente”.

 

 

Indro Montanelli diceva che Di Pietro era “uomo della provvidenza” e questa mansione il magistrato la svolgeva con gusto. Quando lo incontrai nel suo ufficio di via Freguglia, il pm lavorava in una stanza ingombra di faldoni, con una luce triste, da film neorealista. Viveva lì dieci, dodici ore al giorno. Davanti al suo tavolo c’erano due sedie, una era occupata da una pila di documenti. Mi sedetti. Mi raccontò come aveva preso l’avvio il procedimento: «Nulla di romanzesco», mi disse, «da due anni studiavo il fenomeno, diciamo che ero abbastanza preparato in materia di tangenti. E quando mi è capitata fra le mani una querela per diffamazione sporta da Chiesa, è partita la macchina. Un passo dopo l’altro siamo andati lontano». Si lasciò andare sulle sue impressioni: «Mandare un uomo in carcere provoca sempre angoscia, a me ne provoca molta. Quando sono ricorso alle manette è stato perché esisteva il rischio effettivo di inquinamento delle prove, mai per spettacolizzare l’indagine».

Da quel momento ebbi da Di Pietro tutte le notizie su Tangentopoli, navigammo sulla marea di sdegno che inondò quei due anni. L’inchiesta infuriava, mezza Milano tremava, tutti i politici italiani tremavano. Quel magistrato inviso ai colleghi era riuscito a fare in tre mesi ciò che a loro non era riuscito in quarant’anni. Alla fine litigammo perché aveva eseguito indagini su tutti i partiti e le uniche infruttuose erano state quelle sul Partito Comunista. «Ho seguito la tangente fin sul portone di Botteghe Oscure», si giustificò il magistrato, ma per me non bastava. Alcuni, fin troppi, di coloro che furono risucchiati dalle indagini non ressero alla pressione, oppure si videro senza scampo, e si uccisero. Ho sempre avuto l’impressione che a Di Pietro non importasse nulla, nonostante una volta abbia detto che la morte di Raul Gardini sia stata per lui una sconfitta terribile e che lo avrebbe potuto salvare. Raccontò infatti che la sera prima del suicidio i carabinieri lo chiamarono a casa, a Curno, per chiedergli se dovessero arrestarlo: «Dottore, che facciamo, lo prendiamo?».

Tonino però aveva dato la sua parola agli avvocati dell’imprenditore che non avrebbe fatto scattare le manette, a patto che Gardini la mattina seguente si fosse presentato in Procura spontaneamente. Quindi ai militari rispose di lasciar perdere. «Se l’avessi fatto arrestare subito», racconta Di Pietro, «sarebbe ancora qui con noi». Di Pietro si disse convinto che quello del finanziere fosse stato un «suicidio d’istinto, un moto d’impeto, non preordinato». Io sono invece dell’idea che Gardini non premette il grilletto all’improvviso, ma dopo aver covato il proposito per almeno 36 ore. Di Pietro avrà certamente fatto il suo mestiere secondo coscienza, ma al tempo si usava la galera come scorciatoia per arrivare in fretta a una confessione. Si rivelò un sistema spesso efficace. Ma la coercizione, in persone che non sono delinquenti abituati a passare attraverso le porte del carcere, può provocare disastri. E infatti ne ha provocati. 

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