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Massimo Fini, le confessioni: "Fallaci? L'unico modo per trattarla era prenderla a schiaffi"

Francesco Specchia
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«Hai portato il taccuino, o una di quelle diavolerie...?». «Registratore», Massimo, si chiama «registratore». E comunque, no, ho portato il taccuino, da cronista antico. È una questione di cautela. Massimo Fini vive in un eterno falò di antimodernismo, perennemente acceso come il mozzicone di sigaretta che gli s’incolla al labbro come per magia. Intervistarlo con registratore sarebbe stato una provocazione, una diretta Facebook probabilmente l’avrebbe ucciso. Fini domani compie ottant’anni nel suo antro milanese, nella fragranza della carta, del tabacco e delle buone letture. Intorno al suo sancta sanctorum orbitano amici in pellegrinaggio; e domestiche sudamericane in slalom tra cataste di giornali disseminate a terra; e giovani aspiranti segretari pronti a trascriverne, sotto dettatura, gli articoli feroci e lievi come falene. La sua Lettera 32 olivettiana giace sul tavolo. Il tavolo è sormontato da una vignetta. In cui Massimo è circondato da Nerone, Nietzsche e il Mullah Omar, dei quali il giornalista è stato biografo di successo. Di fronte alla vignetta squilla il telefono, con impudenza. Fini resta piantato al centro delle sua biblioteca d’invincibili stratificazioni storico -letterarie. I divani sono ricoperti da maglie di centravanti, alcuni polacchi. Scorrono vita e ricordi. Sembra di essere in quel libro di Xavier De Maistre, Viaggio intorno alla mia camera.

Caro Massimo, dal tuo microcosmo perfetto osservi una vita imperfetta. È vero che prima di fare l’inviato per il mondo hai lavorato come copyrwriter, bookmaker e giocatore di poker?
«Certo. Ma anche come impiegato alla Pirelli. E mi licenziai mandando una lettera insolente al capufficio che giudicava i dipendenti dalla qualità delle cravatte, e io non le portavo. Il suo superiore mi convocò in direzione con la domanda: “Cosa posso offrirle, caffè o bourbon?” risposi “Bourbon”, mi licenziò ma dicendo che avevo un grande futuro. Altrove. Ero, invece bravissimo col poker vero, dicono il migliore giocatore di Milano, la notte pelavo i borghesi ricchi al tavolo verde».

Nel giornalismo entrasti all’Avanti nel ’70. Perché accadde solo dopo la morte di tuo padre, direttore del Corriere Lombardo (ne indica con finta indifferenza l’ultimo editoriale affisso alla parete, anno 1966, ndr) e la laurea in giurisprudenza?
«Per certi versi fu un bene perché non mi potevano accusare di familismo - che odio- e perché mi resi conto che non potevo più fare il cazzaro a vita. L’Avanti è un ricordo bellissimo. La redazione era fatta di socialisti li bertari, il vicedirettore era un comunistaccio di ferro, il dimafonista uno del Movimento Sociale. Il direttore Ugo Intini, l’uomo che mi in ventò editorialista dopo an nidi nera e consigli comunali. Era il mio ambienta naturale. Poi passai al Giorno di Zucconi, e all’Europeo e all’Indipendente. Grandi in chieste, grandi viaggi in giro per il mondo...».

...E grandi reportage dall’Unione Sovietica.
«Quelli soprattutto alla Domenica del Corriere, libero di raccontare la mai troppo rimpianta Urss. Sono russo da parte di madre e mi ci sento nella misura in cui gli italiani hanno perso il senso di solidarietà e l’innocenza».

Poi arrivarono i grandi processi come quello a Enzo Tortora.
«Fui il primo a sostenerne l’innocenza. Poi mi seguirono Feltri e Biagi. E dopo tutto questo mi ritrovai col culo per terra».

Be’, nel mezzo non partecipasti alla fondazione di Repubblica? Non riesco a immaginarti lì, sotto la barba di Scalfari.
«Eppure c’ero. Scrissi tra pezzi, ben accolto. Ma l’ambiente era di una sinistrissima fatta di salotti romani radical chic. Io non ce la potevo fare. Scalfari mi disse: “Come credi di campare, di rendita?”. Tornai all’Europeo e poi ci fu L’Indipendente; e là mi divertii moltissimo, sempre con Vittorio Feltri. Il quale, inventandosi il collante del “feltrismo” faceva scrivere tutti, da destra a sinistra; di tutto si può dire di Vittorio tranne che non abbia il senso del giornalismo».

Leggenda vuole che rompesti con Feltri quando an dò al Giornale sedotto dal Berlusca nel ’94, però poi ti convinse ad arruolarti in via Negri. E tu non firmasti un contratto già pronto per questioni calcistiche. Confermi?
«Non è leggenda. Al Giornale, al momento di firmare il contratto, chiesi all’amministratore delegato Crespi per quale squadra tifasse, “parliamo di cose serie”. Mi disse “sono sempre stato juventino, ma ora mi piace il bel gioco e tifo Milan”. Non firmai più. Chi si piega a cambiare la propria squadra è capace di tutto...».

Con Feltri è odio-amore, Da una vita vi azzannate e fate pace. L’ultima volta gli hai scritto “di te, Vittorio, non rimarrà che polvere”. Non è carino.
«Con Feltri è così, alti e bassi. Quando siamo in buona si trova sempre qualche motivo per litigare; spesso, lo innesco io. Non so dirti perché. Ma, comunque Vittorio resta il miglior direttore delle sua generazione e probabilmente anche delle due precedenti. È un uomo molto generoso, forse ostacolato da tutto il denaro che ha guadagnato. E mi ricordo che gli piaceva un sacco valorizzare i giovani talenti, fottendosene delle pressioni politiche, valutando solo i pezzi. In questo è come Marco Travaglio, che pubblica i miei pez zi sul Fatto Quotidiano, an che se magari non sono nella sua linea. Per certi versi sono entrambi figli di Montanelli».

Di solito, i giornalisti so no una razza antisociale, si frequentano e si riproducono fra loro. Tu hai cono sciuto leggende del nostro mestiere ma non le frequentavi preferendo il poker. Perché?
«Mai frequentati giornali sti a parte Giorgio Bocca. E Walter Tobagi che, con le sue capacità di equilibrio, studiava per diventare il direttore del Corriere della se ra ma l’ammazzarono trop po presto, a 30 anni. Ovviamente ci conoscevamo tutti, era una grande generazione».

Non ti è mai piaciuta Oriana Fallaci.
«Di persona era insopportabile; se avesse dato agli altri un milionesimo dell’attenzione che pretende va per sé, sarebbe stata completa. Ma sul lavoro era eccelsa; specie nei suoi primi anni, con le interviste ai gran di. Negli ultimi anni, da editorialista, ha cannato il giudizio della Storia eppoi si inventava le cose...».

Be’, quello, all’epoca lo facevano anche Malaparte e Montanelli. Predicavano il “correlativo oggettivo” di Eliot, il verosimile più affascinante del vero. Per quale motivo dare la colpa proprio e solo alla Fallaci?
«Dai, Montanelli e Malaparte lo sapevano fare. Da Malaparte Oriana aveva rubato la prosa barocca, che con lei diventava rococò: leggerla nei pezzi era intenso, nei libri pesantissimo. E dire che io lei l’ho conosciuta in un momento di tranquillità, stava con Panagulis, il leader greco; mi ricordo una sera a cena con Alekos che le prendeva a ceffoni ché era l’unico modo per trattare Oriana».

Hai conosciuto bene anche Montanelli?
«Con Indro c’era molta stima. Nella sua prefazione al mio libro Il conformista scrisse che sarei affondato in una coltre di silenzio. La cosa si realizzò anni dopo. È da tempo che hanno smesso di invitarmi nei talk. Per non dire dei programmi televisivi che avrei dovuto fare io direttamente». Be’ ammetterai di essere sempre stato un rompicoglioni di talento. «Indubitalmente».

Ci fu in effetti un momento in cui dovevi fare un talk, Cyrano, su Raidue. Che sparì dai palinsesti.
«Ti ricordi? I dirigenti chiesero al mio produttore Eduardo Fiorillo di farlo ma senza di me, ché non ero gradito. Era, quella, la Rai berlusconiana; e con me Berlusconi - come dice Marco Travaglio- aveva una “censura antropologica”. E poi c’era l’allora vicedirettore di rete, Antonio Socci, che spinse direttamente per eliminare un “antiberlusconiano doc” come me. Il direttore di rete Antonio Marano, mi incontrò per strada: “Non la prenda sul personale, è un ordine dall’alto”. Ma andò bene lo stesso: portammo Cyrano in giro per i teatri d’Italia, con una pattuglia di giovani che recitavano il Fini-pensiero. Da lì nacque una formazione insofferente, antimodernista, piena di giovani, Movimento Zero, s’iscrisse anche Gianfranco Funari. Si tentò di farne qualcosa di politico, ma non ci riuscì».

Però molto di quel pensiero è finito nel Movimento Cinque Stelle, che tu frequentasti sin dagli esordi.
«Partecipai a tutte le riunioni con Beppe Grillo. Poi i grillini si sono persi dopo la morte di Casaleggio, che aveva la visione (anche troppo). Beppe è un grande frontman ma non un organizzatore, credo che oggi la sua decisione di allontanarsi dal Movimento sia dovuta alla moglie iraniana che gli ha fatto notare che forse era il tempo di godersi i suoi sei figli...».

A proposto di politica. Famosa fu la tua lettera d’attacco a Claudio Martelli, roba che anticipava la fine del Psi. Ma lui non era un tuo amico carissimo?
«Siamo stati compagni di banco al liceo. Molto amici, fino a quando capii che la sua amicizia era strumentale. Claudio si mise di traverso anche per la mia carriera, bloccò la mia nomina a vicedirettore del Giorno, ma col senno di poi fu un bene, io non ho esattamente le doti di mediatore del ruolo. Con alcuni direttori non mi sono mai preso, come con Francesco D’Amato al Giorno che si dissociava da quel che scrivevo. Ad altri ho fatto da ghost-writer come con Maurizio Belpietro, che poi ha imparato a scrivere e si è ritagliato un bello spazio con La Verità».

Dopodiché, un giorno, da cronista, ti sei scoperto scrittore e intellettuale contro la modernità (attraverso la terna di long seller La Ragione aveva Torto?, Elogio della guerra e Il conformista, Marsilio e Mondadori). Nel mezzo c’è stata la rivista Pagina.
«Pagina fu un’esperienza culturale, la faceva Aldo Canale. Lì Pigi Battista era il ragazzo di bottega, Della Loggia solo un giovane docente, Mieli era già all’Espresso ma non se lo filava nessuno. Erano degli eretici che si sono normalizzati e mi odiavano perché ero migliore di loro. C’era anche Giuliano Ferrara che, come tutti i ciccioni, ha un certo bisogno d’affetto e ne dà, anche se politicamente siamo agli antipodi».

Sempre una parola buona per tutti...
«Mica vero. Io stesso, come diceva Giovanni Minoli, sono un “perdente di successo”. E, comunque ci sono incontri che mi hanno affascinato. Umberto Bossi, per esempio, l’unico politico con cui andavo a mangiare la pizza assieme a Daniele Vimercati: grande intuito (geniale quello delle macro-regioni, se ci pensi), passione e poche letture ma usate benissimo. Quando gli chiesi se era di destra o di sinistra mi disse: “di sinistra, ma se lo scrivi ti faccio un culo così”. Lo scrissi. Un altro dal fascino incredibile era Nureyev...».

Rudolph Nureyev, il ballerino?
«Sì. La prima volta lo vidi in un bar con un pigiamone e la tazza calda di caffellatte in mano, la seconda a una festa di - come si diceva una volta- invertiti del jet set. Seguii la sua seduzione da manuale di un giovanotto che finì con lui in camera da letto. Siamo uomini di mondo. Io stesso sono stato accusato di essere misogino, omosessuale e tombeur de femmes. Non è vera nessuna delle tre cose, anche se possiedo un fondo di tutte e tre. Le mie amiche carine - non le femministe cesse - apprezzano il mio Dizionario erotico, manuale contro la donna a favore della femmina. È una specie di test di ammissione...».

E qui saranno contente le femministe.
«Cosa vuoi che mi freghi? Io mi sono fatto tre depressioni, La prima dopo la morte di mio padre di cui pensavo non mi interessasse nulla, l’ultima quando, dopo aver sbagliato fidanzata, cominciai a bere. Montanelli, di depressioni, se fece sette. Era insuperabile anche in questo».

Ora hai il glaucoma agli occhi, progressiva rarefazione della vita, come Sergio Staino. Vedo che metti annunci di ricerca di segretari a cui dettare i tuoi pezzi. Come ti sei organizzato col lavoro?
«Detto e rileggiamo tre volte il pezzo, virgole comprese. Ci metto il triplo del tempo. D’altronde se Travaglio nel 2006 non mi avesse convinto attraverso i miei amici Ermanno Olmi e Renzo Arbore, oggi sarei in ritiro definitivo. D’altronde si sta squagliando tutto, è una fagìa di denaro, una perdita di valori. Il giornalismo stesso è come il calcio, senza poesia, decaduto dopo la sentenza Bosman, dove c’è il Var e si è diventati tutti fighetti; invece io ricordo Terry Butcher, quel centrale inglese che giocò un’intera partita insanguinato dalla testa ai calzoncini...».

Parliamo della guerra di Gaza. «Io sto con Hamas». Eccolo qua. Sapevo che l’avesti detto, da biografo del Mullah Omar e altri racconti.
«Gaza è da sempre un lager a cielo aperto. E lo dico essendo ebreo da parte di madre, cosa che ho sempre rifiutato. Gli ebrei sono un popolo intelligentissimo, bada bene. Ma Cristo - nonostante la vulgata- non lo fece fuori Pilato, e ci sarà un motivo se i romani gli unici problemi li hanno avuti in Giudea. Quando Paolo venne fulminato sulla via di Damasco, una volta arrestato ottenne di essere processato a Roma, dove riuscì anche a predicare liberamente. Se fosse rimasto in Giudea se lo scordava».

Qui Massimo, non ti seguo. Ma siccome siamo in una democrazia come quella israeliana e non sotto la censura di Hamas, fedelmente ti riporto. Oltre alla tua opera hai lasciato al mondo un figlio Matteo, che insegna anche ai grandi manager. In che rapporti sei con l’erede?
«Con Matteo ho un rapporto ottimo. Ha trovato da solo la sua strada, lavora col fratello di J-Ax, guadagna molto più di me. L’unico problema è che non mi ha mai dato problemi. Da me non ha preso nulla, tranne che i riflessi fisici e una malinconia di fondo. È una bella eredità...».

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