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Roberto Saviano, 17 minuti di lagna contro Giorgia Meloni

Daniele Capezzone
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Credo che a Napoli si dica: «O i' lloco, fujtevenne!», che è un po’ come dire: «Eccolo, scappate!». Di chi parliamo? Ovviamente di Roberto Saviano che, preciserebbero a Oxford (o forse a Cambridge), non smette di fracassare i neuroni al prossimo anche all’antivigilia di Natale. Ma ditemi voi: come lo volete definire uno che, il 23 dicembre, mette in rete 17 minuti di video per ricostruire 14 anni di polemica con Giorgia Meloni? Mamma mia che pesantezza, che lagna, con la noia che ti prende alla gola.

Ma procediamo con ordine. Siamo sul sito di Fanpage. Appare Roberto Saviano in camicia grigio-verde (tonalità Ferragni): qui però il punto di colore è meno smorto, segno che non ci farà scendere lacrime fino alle guance ma al massimo latte fino alle ginocchia. Sguardo torvo, barba di quattro-cinque giorni, leggero sovrappeso: il profeta ha magnato, si capisce. Telefonino per leggere (scopriremo cosa) nella mano sinistra, anellone d’argento al dito indice della mano destra, spesso alzato vedremo contro chi. Si sa: Saviano parla a dito armato.

 

 

 

Esordio: «Indovinate chi mi manda questa lettera che vi leggo». E attacca un pippone leggendo per due interminabili minuti un messaggio di invito a un evento. Superando i primi (nostri) tre sbadigli scopriremo che si tratta di una lettera di Giorgia Meloni del 2009, per invitare Saviano ad Atreju. E ’sti cazzi, direte voi: quattordici anni fa, tra tante persone più o meno interessanti invitate a una conferenza dove, da allora a oggi, saranno passati 7-800 relatori, c’era pure Saviano.

Ma - mentre voi sbadigliate - Saviano ha già preso la rincorsa e paragona quell’invito del 2009 alla polemica di domenica scorsa: “Domenica 17 dicembre, la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, proprio ad Atreju, urlando, con voce quasi rotta dalla rabbia, mi ha per l’ennesima volta attaccato. Non le basta avermi portato in tribunale. Il mio torto? Secondo Meloni essermi “arricchito parlando di mafia”».

 

 

 

E qui ricomincia la lagna: «Ma perché Meloni cambia idea su di me in questi anni? Perché decide che attaccarmi è più utile che starmi accanto o ignorarmi?». La tesi di Saviano è sempre la solita: che i cattivi populisti abbiano bisogno di un nemico, cioè lui. Saviano fa tutto da sé: sceneggiatore-regista-interprete di un martirio inesistente (il suo), di cui però ci infligge ogni dettaglio: «Disumanizzare una categoria di persone, ecco il primo passo: che siano neri, cinesi, musulmani, ebrei, meglio se poveri, perché i poveri non hanno voce e non possono difendersi». Quindi- apprendiamo- lui sarebbe povero (o almeno come i poveri).

 

IL SIMBOLO

Fermi là che non è finita: «E poi, accanto alla massa da disumanizzare, serve un simbolo da demolire. Un simbolo che diventi un catalizzatore di odio». Avete capito chi è ’sto simbolo? Sempre lui, icona di se stesso: «Quindi io divento solo uno strumento di propaganda utile, anzi utilissimo; la mia sola esistenza costituisce per loro un elisir di lunga vita». Capito il concetto? Meloni, per esistere, ha bisogno di Saviano: altrimenti il 30% dei voti come lo prenderebbe? Chiaro no?

E poi ancora lacrime e lagna: «Lo so che ho perso, l’ho sempre saputo anche prima che questi signori mi attaccassero. Chi racconta la criminalità organizzata vive sapendo che la diffamazione è una compagna di viaggio. Però che una premier attacchi ripetutamente uno scrittore, che lo porti in tribunale pur sapendo quanta disparità c’è tra se stessa e colui il quale deve essere giudicato da una Corte, è qualcosa che dovrebbe far tremare i polsi a voi più che a me».

Qui però c’è una delle tipiche amnesie di Saviano: in 17-minuti-17 si è scordato di ricordare al suo pubblico come mai la Meloni l’abbia denunciato: perché lui - soave e poetico - le ha dato della «bastarda». Ma questo è meglio non ricordarlo ai piccoli fans. E invece Saviano ricomincia la geremiade. Aggredisce Meloni per un libro sulla mafia nigeriana che scrisse insieme ad Alessandro Meluzzi (Saviano non lo cita ma, sia pur indirettamente, non si fa problemi ad attaccare, insieme a Meloni, una persona recentemente colpita da ischemia): «Questo mediocrissimo libretto prende vita dopo un caso di cronaca nera: l’omicidio di Pamela Mastropietro. Si trattò di sciacallaggio palese».

Quindi annotate: se di mafia parla la Meloni, è sciacallaggio; se invece lo fa lui, è epopea civile. Poi non gli va bene nemmeno quello che il governo ha fatto a Caivano, e frigna pure su questo: come si può credere «di poter risolvere la questione con operazioni di polizia, quando è evidente che serve una presa in carico del territorio sotto forma di cura, non di mera repressione?».

 

 

 

BANDE AL POTERE?

Tra uno sbadiglio e l’altro (nostro), ci avviciniamo alla fine della predica: «Meloni è mafiosa? Ovviamente no, ma è pericolosa perché pericolosamente incompetente in materia di mafia». E ancora: «Meloni dice di aver iniziato a fare politica dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, non ho motivo per non crederle. Ma, per il bene di tutti noi, spero sinceramente non faccia politica come fa antimafia». Al quindicesimo minuto circa arriva l’attacco a Carlo Nordio. Qui il profeta accusa un po’ di stanchezza, si disunisce e passa a un’invettiva sempre più confusa. Cito fior da fiore: «Bande al potere», «l’Italia è un Paese a vocazione mafiosa e lo ripeterò continuamente», «ho paura a entrare in un tribunale e in una caserma finché sarete al potere, perché siete una banda». E poi la scontatissima evocazione di Orban e del “regime”: «Su alcuni arriva la mannaia, la vostra macchina, il regime. (...) Se una persona sa che, quando dichiara opinioni politiche, ne pagherà un prezzo, lì è il regime. (...) Può accadere di tutto a persone come me o a persone che si mettono contro questa banda». Gran finale con appello ai resistenti: «La stessa paura che loro diffondono li farà cadere». Stai tranquillo, Roberto, la verità è che siamo già caduti tutti: amici, avversari, regime, partigiani, bue, asinello, più tutti i pastori del presepe. Siamo caduti per il sonno, la noia, la gran rottura di neuroni che ci hai inflitto pure sotto Natale. Ci hai sfinito anche stavolta.

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