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Michela Murgia e il libro postumo? Per favore, scongiuriamo il business

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Michela Murgia  

Francesco Specchia
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A quale scuola di arte postuma apparterrà mai Michela Murgia? Tra gli artisti morti precocemente o in attesa di defungere, tre sono le scuole di pensiero rispetto ai propri inediti che attraverseranno l’Acheronte delle buone – o cattive – intenzioni degli eredi. Tre. C’è la scuola di Robert Plant dei Led Zeppelin, il quale ha già allestito un quintale di bozze e registrazioni da pubblicare soltanto dopo il proprio decesso (il più tardi possibile); c’è la scuola di Franz Kafka che aveva disposto di bruciare gli scritti mai usciti dopo la sua morte, ma l’erede universale Max Brod fece esattamente il contrario. E c’è la scuola di Giovannino Guareschi affidatosi, in tema d’inediti, alla volontà dei figlioli, pregandoli di usare ragionevolezza nell’evitare d’ingolfare il mercato anche con i suoi pizzini di famiglia, ricette di cucina o liste della spesa, e qui, talora, i Guareschi’s boys si lasciarono un po’ prendere la mano. Ora, il 9 gennaio, Rizzoli renderà omaggio a Michela Murgia, scomparsa il 10 agosto 2023, con la pubblicazione del suo libro postumo intitolato Dare la Vita.

OPERA «ALLARGATA»
E si tratterà di capire a quale delle opzioni suddette la «grande famiglia queer» degli eredi murgiani aderirà. Consegnato il 10 agosto, poco prima di morire, il libro «offre uno sguardo intimo sulla prospettiva di Murgia riguardo a un modello di maternità alternativo. Partendo dalla sua esperienza personale, l’autrice esplora il concetto di dare la vita senza dover necessariamente generare biologicamente: con una prosa ricca di profondità e riflessione, delinea come i legami d’anima possano essere altrettanto significativi, se non di più, dei legami di sangue», fa sapere la casa editrice. E sta bene. Dopodiché Alessandro Giammei, «curatore dell’opera» nonché membro della «famiglia allargata» si è pregiato di aggiungere all’Ansa: è «un libro toccante, sulla famiglia.

 

 

Doveva essere solo sulla Gpa (Gestazione per altri, ndr) ed è diventato un libro più profondo sul senso della genitorialità e parentela». Ossia, nel giro di cinque mesi dalla morte della scrittrice, quell’ultimo pamphlet, finito in un’interpretazione «estensiva», è diventato subito «un progetto editoriale» vero e proprio. E, almeno nel marketing, già risulta avvolto da una retorica postuma, promanata dall’erede ufficiale, il Giammei appunto. Il quale Giammei, da curriculum, si attesta come professionista senz’altro competente in quanto «ricercatore di letteratura italiana all’università di Yale, negli Stati Uniti»; e figura anche, per sua stessa ammissione, «figlio d’anima» della stessa Murgia. E quando si è «figli d’anima» di un’anima così travolgente, accecante ed estesa; be’, in effetti, si può pure essere tentati dalla smania della “glossa” al testo originale. In soldoni, si può scivolare nell’atto di voler doviziosamente spiegare la genesi, i pensieri, gli amici e i nemici, il contesto politico/sociale e le lezioni nascoste nello scritto anche se non ci sono. Il tutto in un florilegio a latere della pubblicazione, che minaccia di rendere quelle note a margine un viaggio perenne ed estenuante nella weltanschauung della Murgia stessa. La smania delle glossa è un rischio umano quanto pericoloso. Come quello – per dire che corse Gordon Lish, editor di Raymond Carver nel gestire la potenza di fuoco delle scrittura del suo assistito. Fu un mezzo disastro.

 

 


Comunque la si pensi, Michela Murgia da Cabras è stata un’entità fiammeggiante della cultura italiana. Dal punto di vista letterario si è sempre trovata sulla cresta dell’onda: dagli esordi col romanzo Il mondo deve sapere a Accabadora premio Campiello nel 2009 (c’eravamo, alla Fenice, quando lo ritirò, dando allegramente del «vecchio bavoso» al Bruno Vespa accusato di avances sessiste nei confronti di una spiazzata Silvia Avallone), fino a Tre ciotole. Rituali per un annodi crisi, anno 2023, uscito dopo la sua morte e finito subito in testa alle classifiche. Bravissima come polemista anche in televisione, Murgia si distingueva pure come «blogger e performer»; viveva furiosamente in un perenne cerchio di fuoco, vibrava nei roghi, ingoiava gli accendini nel fornire, per esempio, ai giornalisti di Repubblica un vademecum orwelliano e senza appello su Come raccontare un femminicidio (e i giornalisti, allora, non la presero bene). Era una suffragista invincibile. Splendidamente divisiva, pugno chiuso e lotta operaia, Murgia aveva come lumi il femminismo duro e il comunismo in purezza. E vedeva fascisti e maschi sciovinisti dappertutto. Soffriva la sindrome del maschio in orbace. Se solo sbagliavi e alzavi il braccio destro per un crampo, lei, vedendoci il saluto romano, te lo tagliava con la sega elettrica. Nel 2018 si inventò addirittura il per certi versi geniale «Fascistometro», un questionario di 50 pensieri che permettono di valutare quanto si è nostalgici del ventennio; e nel, contempo, aveva scritto un saggio per Marsilio, Istruzioni per diventare fascisti. Quando tutto il mondo piangeva per l’incendio di Notre Dame, lei parlò di «piagnisteo generalizzato» e tirò fuori il dramma dei migranti.

FORZA INTELLETTUALE
Non parliamo, poi, degli attacchi a Salvini, Berlusconi e Meloni - nei ruoli governativi e no - talmente vividi e fantasiosi da diventare arabesco letterario. La sua rabbia primordiale, accompagnata da uno stile assai raffinato, ne facevano, comunque, in un senso alla Sartre, un intellettuale di talento impegnata in mille battaglie. Battaglie che, certo, quasi mai condividevamo; ma che rappresentano indubbiamente un lascito per i suoi fan, i suoi lettori, il suo mondo estremizzato in una sinistra impossibile. Ed è proprio per questa sua originalità, per la vividezza del suo messaggio, che si deve evitare come la peste, per la Murgia, la sindrome della deificazione, l’esegesi del testo da parte di «chi la conosceva bene». La ricerca affannosa dell’inedito. Se volete onorarla davvero evitate, per favore, l’insindacabilità dell’arte postuma... 

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